Sì, del Natale ci sono anche cose che non mi piacciono

Le cose belle che adoro del Natale le ho raccontate migliaia di volte: sono una cultrice di questa festa, che per me significa famiglia e tavola imbandita, cucina e ricette di tradizione. Ma ci sono anche – poche e ben definite – cose che proprio non sopporto, e siccome non le avevo mai messe in fila, eccole qui per i Grinch e per chi, come me, oggi non avrà nemmeno tempo di respirare perché ha i parenti a casa e cucina per tutti.
Avete in mente quella gelatina molliccia e inutile, quella che sta aggrappata alle tartine e le ricopre come un blob, per preservare quel niente di crostaceo coperto da una svalangata di maionese bianca, che poi mi sono sempre chiesta perché la maionese bianca esiste solo sulle tartine di Natale. Bene, quella cosa che non sa di nulla e si appiccica a ogni superficie con cui entra in contatto è una delle cose che mi turba durante il pranzo di Natale. Non la mangio, ci mancherebbe altro. Ma la devo eliminare dai piatti di quasi tutti i commensali, che prendono le immonde tartine e – come è giusto che sia – eliminano la parte trasparente in favore di uova e pesce, e me la lasciano sul bordo dei piatti, e quando arrivo in cucina e devo sistemare i piatti dell’antipasto nella lavastoviglie quella fa apposta a rimanere attaccata, o – peggio mi sento – si stacca all’improvviso e finisce sul piano della cucina, dal quale provo invano a toglierla con un colpo di spugna, che non fa altro che peggiorare ulteriormente le cose, lasciando sul marmo una bella strisciata che pare bava di lumaca. Anche quando pensi che sia finalmente finita la battaglia, te la ritrovi sul torcione che hai usato per asciugarti le mani.
Odio anche l’unto, del Natale. Avete notato che tutti i piatti natalizi sono inspiegabilmente e invariabilmente grassi? Il solo entrarci in contatto sporca tutto quello che sfiorano con la loro patina opaca, che si tramette per contatto a qualunque oggetto ci sia nei pressi, sia esso piatto, sottopiatto o calice di cristallo. Tutto unge: il salmone affumicato, l’insalata russa, il cappone, i salumi, il panettone, la crema al mascarpone, il brodo. Il tovagliolo non basta, servirebbe lavarsi le mani dopo ogni portata, ma non è certo una soluzione. L’unto che odio di più di tutti gli unti di Natale? Quello che si impianta sulle posate e lì rimane per tutto il pranzo.
Non sopporto le macchie e le briciole, ma quello è un gene difettoso che ho sempre, ma che sulla tavola di Natale mi urta il sistema nervoso più che mai: che poi è anche quel gene che mi fa soffrire per ogni goccia di acqua sull’acciaio del lavandino. Per la tavola di Natale io ci provo, a evitare le briciole, coi piattini del pane, che mai come oggi mi paiono compagni di battaglie deliziosi.
Detesto anche i tempi, del Natale. Quei tempi dilatati che fanno arrivare gli ospiti in orari improbabili, e che impediscono di avere dei tempi certi di messa a tavola di qualunque alimento. Tu puoi aver calcolato al millimetro l’uscita di ogni portata, puoi aver incastrato i minuti per ottenere la cottura a puntino e la sequenza perfetta con le pause più corrette per la digestione e per la conversazione, ma niente da fare, loro saranno usciti a guardare le piante del terrazzo, staranno rispondendo a qualche messaggio di amici lontani, saranno infervorati in qualche inutile discussione sul divano e non avranno la più pallida intenzione di sedersi a tavola finché non avranno finito. Nel mentre, il pane per il salmone sarà secco, la pasta dei tortellini sarà sfatta nel brodo, il cappone sarà di nuovo tiepido come quando l’hai infilato nel forno e quando arriverà nei piatti tutti diranno “è buono, ma è un po’ freddo” e tu avrai la crisi mistica dell’anno, perché quel cappone tu l’hai scelto, farcito, conservato, cotto a puntino e fatto uscire dal forno nel momento giusto, ma loro stavano ancora finendo la terza porzione di primo, oppure avevano bisogno di una pausa più lunga, oppure non erano pronti per avere finalmente quel piatto caldo davanti agli occhi. Detestabile, ma ineluttabile.
Mi fa arrabbiare da morire tutto quello che non dipende da me e interferisce con la mia scansione ideale del menu: tipo qualcuno a caso (mio marito) che cerca il cavatappi e apre il vino mettendoci dieci minuti perché nel frattempo chiacchiera e ride e fa le foto alla bottiglia. E il pane dei crostini si raffredda, maledizione! Ma non sapete che ogni minuto è un’ora, in cucina?
Odio aspettare di mangiare il panettone: io la frutta me la eviterei, per passare al mio amore lievitato più amato di sempre e per sempre. E invece no, frutta fresca e secca, poi alziamoci un attimo e sgranchiamoci le gambe, e mi prepari un caffé? E mangiamo due datteri e qualche torroncino, c’è l’acqua gasata? No dai, non subito con il panettone, sistemiamo la tavola e facciamo partire la lavastoviglie. E io sono lì che bramo, che aspetto, che ho un solo, grande, incontenibile desiderio: la mia fetta di panettone intera e cicciotta (che durante ottobre, novembre e dicembre ne mangio sessanta ma sempre un quarto e a volte nemmeno, ndr), con la crema al mascarpone accanto sul piattino della nonna. Quello è il mio momento perfetto. Quello è Natale! Ma bisogna aspettare, perché prima delle 17 non arriva mai. Sgrunt.
Se siete quelli che stamattina siete di corvé cucina, difficilmente riuscirete a leggere queste righe, ma sappiate che sono dedicate a voi, e a tutti noi – martiri delle feste comandate perché abili ai fornelli e con tavoli da dodici in ampio soggiorno. Dovete solo respirare, e pensare che dopodomani sarà tutto finito. No, non domani: domani mangiamo gli avanzi. Buon Natale, da Gastronomika.
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