Zelensky respinge il compromesso di Trump sulla cessione dei territori

«I russi vogliono tutto il Donbas, noi non lo accettiamo, sarà il popolo ucraino a rispondere a questa domanda, che si tratti di elezioni o di referendum». Le parole di Volodymyr Zelensky in conferenza stampa, dalla capitale ucraina Kyjiv, mettono in chiaro che non ci saranno accordi presi da terzi sulla sovranità territoriale ucraina.
Il presidente ucraino ha risposto in modo indiretto, ma molto chiaramente, alle dichiarazioni di Donald Trump, che ieri è tornato a proporre una nuova ipotesi di compromesso: il ritiro delle forze ucraine dal Donbas, oggi teatro centrale dell’avanzata russa, a fronte dell’impegno di Mosca a non occupare immediatamente l’area lasciata libera. Una sorta di “zona economica libera”, definita dagli americani, o “zona demilitarizzata” nel linguaggio del Cremlino. «Chi governerà quel territorio? Non lo sanno ancora», ha spiegato Zelensky, sottolineando la fragilità della proposta. «Se una parte arretra e l’altra resta, che cosa impedirà ai russi di avanzare?», ha aggiunto Zelensky.
La posizione di Kyjiv non potrebbe essere più chiara: nessun ritiro senza garanzie reali, nessun compromesso che assomigli a una cessione mascherata. Eppure non dovrebbe essere difficile da capire, in fondo è quello che l’Ucraina dice da sempre. Anche perché il Donbas, dopo oltre dieci anni di guerra intermittente, è oggi il cuore della strategia militare russa. Luhansk è quasi interamente sotto controllo di Mosca, mentre nel Donetsk gli ucraini difendono ancora circa 6.600 chilometri quadrati, compresi i centri cruciali di Sloviansk e Kramatorsk.
A questo si somma l’insofferenza crescente dell’amministrazione Trump, che accusa Zelensky di rallentare i negoziati e insiste per vedere «risultati concreti». Il presidente ucraino ha confermato di aver inviato a Washington una controproposta in venti punti, che includerebbe un’intesa preliminare sul limite massimo di ottocentomila soldati nelle forze armate ucraine. Restano però nodi centrali: non solo le questioni territoriali, ma anche il destino della centrale nucleare di Zaporizhzhia, che Kyjiv rivendica come condizione irrinunciabile di sicurezza nazionale.
Intanto, in Europa cresce la consapevolezza che un negoziato squilibrato rischi di indebolire l’intero continente. Il segretario generale della Nato, Mark Rutte, ha ribadito ieri a Berlino che, se Vladimir Putin dovesse ottenere ciò che vuole in Ucraina, «il rischio di una guerra in Europa diventerà più concreto». Per questo, dice Rutte, non ci si può perdere in fraintendimenti: «La spesa militare deve aumentare adesso».
Intanto la riunione della Coalizione dei Volenterosi ha provato a ricucire lo strappo con Washington: il cancelliere tedesco Friedrich Merz, il presidente francese Emmanuel Macron e il premier britannico Keir Starmer sperano in un vertice decisivo la prossima settimana nella capitale tedesca. Ma il quadro transatlantico resta complesso, aggravato dalle proposte americane sulla ricostruzione e sul reintegro economico della Russia, considerate inaccettabili da molte cancellerie europee.
In mezzo a tutto questo, l’Ucraina continua a ripetere che ogni passo verso la pace dovrà essere legittimato dai suoi cittadini. Non un dettaglio procedurale, ma la linea rossa che Kyjiv non sembra disposta ad attraversare, neppure sotto il peso della guerra e della pressione dei suoi alleati.
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