Il populismo è la risposta emotiva a un’Europa senza racconto comune

Il 9 settembre 2024, durante la presentazione del suo Rapporto in Commissione europea, l’ex presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, con a fianco Ursula von der Leyen, l’attuale presidente della Commissione europea, evidenziava l’assoluta necessità di un cambio radicale perché l’Unione Europea continui ad esistere: «cambiamento radicale o sarà agonia. Serve il doppio del piano Marshall». Quella che ha posto in tale occasione Mario Draghi, come da lui stesso definita, «è una sfida esistenziale».
Qualche anno prima, il 6 marzo 2019, in occasione di un convegno all’Università degli Studi Roma Tre nella facoltà di Scienze politiche, un’espressione mi sorprese e ricordo che me la annotai subito nel mio taccuino; era agli inizi del mio percorso dottorale: «L’Unione Europea è un “oggetto politico non identificato” […]. Le crisi stanno all’Europa come il movimento sta al corpo umano nel camminare. Lo squilibrio e la crisi sono funzionali al movimento». Ed è proprio in questa Unione Europea o “oggetto politico non identificato” che si tuffa questo volume, nel tentativo di classificare il fenomeno del populismo attraverso uno studio comparato tra due contesti nazionali: l’Italia e la Germania.
Nel 2010, all’indomani dello scoppio della crisi economico-finanziaria, Herman Van Rompuy, l’ex presidente del Consiglio europeo, dichiarò: «Il grande pericolo è il populismo». Il Cambridge Dictionary, nel 2017, considerò “populismo” la parola dell’anno. Il 20 novembre 2018, sul quotidiano “The Guardian”, uscì un articolo che fece scalpore; iniziava così: «Il populismo è sexy». L’autore dell’articolo in questione, Matthijs Rooduijn, evidenziava come dal 2016 sembrasse che i giornalisti (e non solo) non riuscissero più a farne a meno. Il 2024, anno elettorale per ben settantasei paesi nel mondo, ne è stata la conferma.
Il 1989 è un anno di straordinaria importanza, non solo per la Germania, ma per il mondo intero; è da ricordare e studiare per comprendere il fenomeno populista europeo, o il nuovo populismo (Taggart, 1995), consci che a ogni modo gli sviluppi sociopolitici che anticiparono quella data, iniziati già dagli anni Settanta, rivestirono un ruolo altrettanto importante; ma partiamo da quel 1989. In una riunione con i suoi consiglieri, nella tarda serata del 9 novembre, Michail Sergeevič Gorbačëv, l’allora segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica, dovette ascoltare una verità perturbante: «Michail Sergeevič, sappiate che per i tedeschi siete prima di tutto il portatore della promessa di una unificazione della loro nazione». Visibilmente imbarazzato, lo stesso rispose d’impulso: «Ma devono essere coscienti che per il momento è impossibile!».
Eppure non è stato così: nel 1989 si aprì una parentesi, durata circa una ventina d’anni, in cui in qualche modo si ebbe l’impressione che il “tragico” fosse definitivamente finito. «Crollava così anche il sistema totalitario che aveva assoggettato tante popolazioni europee in nome di una non ben definita filosofia materialista della storia e del progresso. Si concludeva “il secolo delle ideologie”, “religioni alternative” contro le quali la Chiesa aveva combattuto con successo una battaglia lunga e impari, e si estingueva infine l’ultima eresia cristiana» (Chenaux, 2011, p. 263). Da quel momento in poi si parlò di un trionfo della democrazia liberale e dei rivoluzionari liberali (Zielonka, 2018). Dalla stessa lettura della famosa opera di Francis Fukuyama The End of History andthe Last Man (1992) si poteva avere l’impressione che la soluzione occidentale trovata fosse eccellente, irrinunciabile, immutabile, eterna, quella ormai giusta per sempre, la panacea contro tutti i mali.
Si era anche raggiunto quel sogno orientale di una occidentalizzazione, le ragioni per cui lo stesso comunismo era sembrato crollare: l’URSS aveva perso il controllo, già qualche anno prima. Nel 1986, Michail Gorbačëv capì che c’era un’“arteriosclerosi” di capacità di controllo del sistema. Questo pensiero ottimista, di fiducia, diede quasi subito luogo ai Trattati di Maastricht del 1992 e all’ulteriore allargamento europeo. «Fino a poco fa […][,] politicamente parlando, sembrava che il futuro non sarebbe stato tanto diverso dal passato. Poi quel futuro arrivò e si mostrò totalmente diverso» (Mounk, 2018, pp. 1-2).
Fu così che ci fu una prima interruzione di quell’ottimismo dopo l’11 settembre del 2001, giorno dell’attacco alle Torri Gemelle di New York. Seppure non fosse stata direttamente colpita l’Unione Europea, il pensiero di una probabile fragilità del mondo occidentale sin dal primo anno del XXI secolo si fece vivo. quella fase di illusoria tranquillità. Si è parlato di un cosiddetto “quindicennio di policrisi” tra il 2009 e il 2024, e non potrebbe esserci espressione migliore per descrivere quello che è avvenuto in Europa dal 2009. Da quell’anno, infatti, il continente è stato investito da una sequenza senza precedenti di gravi emergenze: la grande recessione, la crisi migratoria, la pandemia di covid-19, l’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio del 2022 (situazione che molti avevano definito prevedibile visti gli avvenimenti del 2014) e la crisi energetica che ne è conseguita.
Lo stesso conflitto in Medio Oriente a seguito del massacro del 7 ottobre 2023 ha inevitabilmente avuto conseguenze, seppure ancora indirette, nel contesto europeo, sia a livello di polarizzazione politica che a livello psicologico, soprattutto tra i giovani. In tutto ciò, il costo della vita è inevitabilmente aumentato, creando ulteriore povertà tra molte famiglie europee. Inoltre, se da una parte gli effetti del cambiamento climatico sono diventati in certi contesti geografici più evidenti e tangibili, dall’altra il prezzo di una transizione ecologica è apparso agli occhi di molti cittadini europei davvero troppo alto. D’altronde, già nel 2019, prima dell’arrivo della pandemia e dello scoppio dei due conflitti internazionali, si elencavano una serie di macro-fenomeni politici, economici, sociali e culturali di più lungo periodo che stavano interessando tutte le principali democrazie europee, in particolar modo negli ultimi quindici anni (Bolgherini, D’Ottavio, 2019, p. 14).
L'articolo Il populismo è la risposta emotiva a un’Europa senza racconto comune proviene da Linkiesta.it.
Qual è la tua reazione?
Mi piace
0
Antipatico
0
Lo amo
0
Comico
0
Furioso
0
Triste
0
Wow
0




