L’Europa tace mentre la Georgia smantella lo Stato di diritto e la libertà di stampa

Agosto 5, 2025 - 09:00
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L’Europa tace mentre la Georgia smantella lo Stato di diritto e la libertà di stampa

È attesa per il 6 agosto la sentenza nei confronti di Mzia Amaghlobeli, giornalista e cofondatrice di Batumelebi e Netgazeti, due dei pochi media indipendenti rimasti in Georgia da parte del Tribunale di Batumi. Amaghlobeli è detenuta dallo scorso gennaio con l’accusa di aver aggredito un agente di polizia durante una manifestazione nelle strade della seconda città del Paese: un’accusa contestata da più parti per la vaghezza delle prove, l’opacità dei video e il comportamento violento delle forze dell’ordine.

Dopo uno sciopero della fame durato trentotto giorni, Amaghlobeli è comparsa in aula il primo agosto, al termine di un’udienza durata oltre nove ore, e di nuovo il quattro agosto per pronunciare la sua arringa finale, nella quale ha rifiutato chiaramente il patteggiamento offerto dallo Stato, dichiarandosi ancora una volta totalmente innocente. In aula ha raccontato le modalità del suo arresto, avvenuto dopo gravi aggressioni, e ha concluso ringraziando tutte le persone che le sono state vicine, invitandole a lottare fino alla fine per la libertà. Le sue condizioni di salute restano critiche.

Nonostante le prese di posizione di organizzazioni internazionali – tra cui Amnesty, Rsf, Ipi e Cpj – e la presenza in aula il primo agosto di Salome Zourabichvili, ex presidente georgiana, che l’ha definita «una prigioniera politica e un simbolo della stampa libera», la politica europea, e italiana, resta in gran parte silente. Nel frattempo, il governo del partito Sogno Georgiano, già accusato di soffocare il dissenso, ha introdotto una legge sugli agenti stranieri che limita drasticamente l’attività dei media indipendenti e delle Ong. La comunità internazionale osserva. Ma non basta più osservare.

Il caso di Mzia Amaghlobeli non è soltanto un attacco a una giornalista, non è un incidente né un eccesso momentaneo: è l’espressione coerente di un disegno autoritario, il sintomo visibile di un deterioramento sistemico dello Stato di diritto in Georgia, dove il governo sta progressivamente smantellando ogni contropotere – a partire dalla stampa indipendente, fino alla magistratura autonoma.

L’arresto di una giornalista con accuse nebulose, la repressione delle manifestazioni, l’uso delle forze di polizia per intimidire il dissenso, sono strumenti di un potere che non tollera più alcuna opposizione civile. E quando l’accusa diventa «aggressione a un agente» in un contesto di protesta civile, è il terreno giusto per ogni deriva giustizialista: si rovescia l’onere della prova, si presume la colpevolezza, si cancella il principio della proporzionalità dell’uso della forza pubblica. Quando il potere politico identifica nel giornalismo indipendente un nemico, e nella protesta civile una minaccia, ha già abbandonato i principi minimi dello Stato di diritto.

Chi si riconosce nei valori di una democrazia liberale – fondata sul rispetto dei diritti individuali, sul pluralismo dell’informazione, sulla separazione dei poteri – non può limitarsi a osservare. Occorre chiamare le cose con il loro nome: l’arresto e il processo di Amaghlobeli sono un atto politico, e la sua detenzione preventiva è sproporzionata, punitiva, arbitraria.

Per questo il silenzio della politica italiana è tanto grave quanto l’inerzia dell’Unione europea: lascia spazio a regimi che, mascherandosi da democrazie elettorali, operano sistematicamente per ridurre le libertà fondamentali. Difendere Amaghlobeli oggi significa difendere la distinzione tra legge usata come strumento di potere autoritario e diritto esercitato come garanzia di diritti.

Non è un appello sentimentale, ma un dovere razionale: occorre chiedere sanzioni, legare gli accordi commerciali al rispetto dei diritti umani, sostenere attivamente la società civile e i media indipendenti, come Batumelebi e Netgazeti.

Mzia Amaghlobeli non è solo un caso di cronaca giudiziaria e non è una battaglia partigiana: è una battaglia di civiltà. È un simbolo – e, se lo vogliamo, anche una soglia. Superarla in silenzio significherebbe accettare che, in un Paese che condivide i valori fondanti l’Europa e che anela a farne parte pienamente, la libertà può essere sacrificata in nome del potere.

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Redazione Redazione Eventi e News