Meta cambia le regole del gioco: pubblicità o abbonamento per continuare a usare Facebook e Instagram

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Meta introduce un nuovo sistema di accesso alle sue piattaforme, Facebook e Instagram: utenti obbligati a scegliere tra “sorbirsi” la pubblicità o pagare un abbonamento per continuare a utilizzare i propri account social.
Gli utenti europei si torvano di fronte a una scelta immediata e non rinviabile: accettare la pubblicità personalizzata continuando a usare il servizio gratuitamente, oppure sottoscrivere un abbonamento mensile per evitare annunci e tracciamento dei dati personali.
La novità, ispirata ai modelli adottati da piattaforme streaming e musicali, è una riproposizione – più invasiva – di una funzione già introdotta da Meta a fine 2023 per adeguarsi al Digital Markets Act (DMA), la normativa europea che impone maggiore trasparenza nel trattamento dei dati personali e nella concorrenza tra big tech. Ora, dopo mesi di relativa calma, il colosso tecnologico torna alla carica con una strategia che, sebbene già nota, viene presentata in modo più perentorio.
Meta cambia le regole del gioco: pubblicità o abbonamento per continuare a usare Facebook e Instagram
Una schermata a tutto schermo interrompe qualsiasi attività in corso, chiedendo una decisione netta: o si paga o si accetta la profilazione.
Questa formula del “paga o acconsenti” non è un’esclusiva dell’universo Meta. Anche diversi siti d’informazione, nell’ultimo anno, hanno adottato una strategia simile: negando il consenso all’uso dei cookie per finalità pubblicitarie, agli utenti compare un secondo banner che propone un’alternativa a pagamento per accedere ai contenuti. Il messaggio è chiaro: o si accetta il tracciamento oppure si versa un contributo per leggere le notizie.
Un approccio che sta attirando l’attenzione delle autorità europee. Lo scorso aprile, la Commissione UE ha multato Meta per 200 milioni di euro, ritenendo che il sistema utilizzato violasse il DMA. La sanzione è stata accompagnata da un ordine di modifica del modello “take it or leave it”, con l’obbligo di garantire scelte realmente libere agli utenti.
In Italia, anche il Garante per la protezione dei dati personali ha avviato verifiche sia su Meta che su alcuni editori digitali, sollevando dubbi sulla compatibilità di questi modelli con la normativa vigente – in particolare con il Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR) e la direttiva e-Privacy.
Il punto critico è la reale libertà di scelta dell’utente: quando il consenso è condizionato all’accesso a un servizio essenziale, può ancora considerarsi “libero”?
Quali dati vengono raccolti e come opporsi
Tra le informazioni raccolte da Meta rientrano non solo i contenuti che l’utente condivide volontariamente – come post, immagini e commenti – ma anche dati più sensibili e meno visibili, come i metadati delle foto, le interazioni con chatbot basati su intelligenza artificiale (come Meta AI su WhatsApp e Instagram) e persino informazioni che riguardano persone non iscritte alle piattaforme ma menzionate o taggate da altri.
Il GDPR offre tuttavia agli utenti la possibilità di opporsi al trattamento dei dati. Meta ha predisposto strumenti specifici per esercitare questo diritto:
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Per chi ha un account: è possibile accedere al modulo di opposizione direttamente dal Centro sulla privacy delle impostazioni del proprio profilo Facebook o Instagram. La richiesta limita l’uso dei dati futuri, ma non cancella quelli già raccolti.
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Per chi non è iscritto: bisogna dimostrare che Meta detiene effettivamente informazioni personali (ad esempio attraverso foto o commenti pubblicati da terzi). Anche in questo caso, esiste un modulo dedicato per esercitare il diritto di opposizione.
Va ricordato che la revoca del consenso si applica solo ai contenuti pubblicati dopo la richiesta, e non impedisce a Meta di continuare a usare informazioni condivise da altri, come foto in cui si è taggati o commenti in cui si è citati.
Il nodo del consenso “implicito”
Meta fonda il proprio sistema sulla base giuridica del “legittimo interesse”, una clausola prevista dal GDPR che consente il trattamento dei dati senza consenso esplicito, a patto che non siano compromessi i diritti fondamentali degli interessati. Tuttavia, secondo molte autorità e esperti di privacy, l’utilizzo di dati per finalità come l’addestramento di sistemi di intelligenza artificiale richiederebbe un consenso informato, specifico e non ambiguo.
Un ulteriore elemento controverso riguarda il principio secondo cui l’assenza di opposizione verrebbe interpretata come consenso. Ma il GDPR è chiaro: il silenzio o l’inattività non possono in alcun modo valere come accettazione. Il consenso, per essere valido, deve essere sempre esplicito e consapevole.
Come negare il consenso (passo dopo passo)
Su Facebook (versione web)
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Cliccare sull’immagine del profilo in alto a destra.
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Accedere a Impostazioni e privacy, poi al Centro sulla privacy.
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Individuare il testo informativo e cliccare sulla parola “opporti”, evidenziata nel secondo paragrafo.
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Verificare l’email associata, aggiungere eventualmente una spiegazione, e inviare la richiesta.
Su Instagram (app mobile)
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Toccare l’icona del profilo in basso a destra.
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Aprire il menu (tre linee in alto a destra).
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Scorrere fino al Centro sulla privacy.
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Toccare la parola “opporti” e compilare il modulo come sopra.
La procedura è valida per ciascun account separatamente: chi possiede più profili dovrà ripeterla per ognuno. Non impedisce però a Meta di elaborare dati raccolti tramite terzi, come contenuti in cui si è menzionati o taggati.
Il futuro della privacy digitale
La vicenda evidenzia un conflitto sempre più acceso tra diritto alla privacy e modelli di business basati sulla monetizzazione dei dati personali. Il confine tra consenso e costrizione diventa labile quando l’accesso a servizi fondamentali viene subordinato alla rinuncia, più o meno consapevole, della propria riservatezza.
Le istituzioni europee stanno cercando di arginare pratiche opache e riequilibrare il rapporto tra utenti e piattaforme digitali. Ma finché la scelta sarà tra pagare o essere sorvegliati, resta aperta una questione di fondo: quanto vale davvero la nostra privacy?
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