Mio padre, e i militari italiani uccisi in silenzio da uranio e amianto

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Con questo articolo Massimiliano Coccia ha vinto il premio giornalistico nazionale Pietro Di Donato, sezione “Carta stampata”.
Sono stato un’ultima volta, da solo, nella casa che avevo abitato con mio padre prima che venisse venduta. Quella casa che ognuno di noi ha – il luogo dove i primi passi si ricordano insieme ai primi dolori. Ogni mattina lo vedevo uscire con una divisa sulle spalle, una di quelle che sanno di ferro e di dovere, per andare in giro per il mondo come operatore di pace: allestiva tendopoli, distribuiva cibo, costruiva infrastrutture come ausiliario delle Forze Armate per la Croce Rossa Militare.
Quando ci sono tornato, ho messo su un disco di Paolo Conte. La puntina ha cominciato a girare e ho aperto i faldoni della sua malattia: le relazioni delle commissioni mediche, le carte d’ospedale, i referti, le lettere. Era il diario di bordo della sua fine. Mio padre è morto di un microcitoma polmonare a piccole cellule, una di quelle malattie che hanno un nome lungo come una condanna. «Scusami un attimo, passa una mano qui, così sopra i miei lividi / ma come piove bene sugli impermeabili / e non sull’anima», canta Paolo Conte mentre leggo, come un mantra, le note cliniche scritte con biro blu nei margini delle cartelle.
Tra un’aspirazione di liquido polmonare e l’altra, la frase torna ossessiva: condizioni del paziente in costante scadimento. È ripetuta ogni giorno, con la stessa grafia minuta, con la stessa calma burocratica, come se la morte potesse essere un fenomeno amministrativo, un processo in corso, un dato da aggiornare. Una notte, uno degli infermieri mi disse: «Sai quanti ne ho visti io come tuo padre? Entrano qui per un fastidio e non escono più.
Iniziano a non respirare, perché i polmoni si fanno pesanti. L’acqua sostituisce l’aria e i polmoni iniziano a cedere. Gli aumentiamo l’ossigeno, ma più aumentiamo e più iniziano a desaturare». Aveva la voce calma di chi ha visto tutto, eppure parlava come se stesse raccontando un naufragio quotidiano, silenzioso, senza testimoni. Rileggo quella frase come si ascolta un rosario laico: condizioni del paziente in costante scadimento. È la lingua della burocrazia che anestetizza il dolore, e racconta meglio di ogni parola quanto poco sappiamo prenderci cura dei nostri.
Una biografia come tante
Mio padre era nato a Roma il 2 giugno 1959 ed era un infermiere militare del Corpo della Croce Rossa Italiana. Credeva nella Repubblica come si crede in una promessa mantenuta con il lavoro, non con la retorica. Per lui la bandiera e la nazione erano un sentimento d’amore, un’idea di vita. Per più di vent’anni ha servito lo Stato tra emergenze e missioni: Bosnia, Kosovo, Iraq, Afghanistan, Albania.
Luoghi dove la guerra si confondeva con la polvere, e dove la pace era un lavoro lento, fatto di tende, feriti e soccorsi. Tornava sempre in silenzio, con lo sguardo di chi ha visto troppo e non vuole farlo pesare agli altri. Dopo la sua morte, per molto tempo ho cercato di capire in quale pezzo di mondo avesse potuto contrarre il male. Alla fine la casistica è finita sulla guerra dei Balcani, una pagina che sembra lontana ma continua a uccidere in silenzio chi l’ha attraversata. L’uranio, l’amianto, le nanoparticelle: tutto questo è stato parte della nostra vita per più di un decennio. C’era quando litigavamo, c’era quando ridevamo, c’era come un killer che aspetta, paziente, la sua vittima collaterale.
La malattia è arrivata come una conseguenza non sperata, lancinante. Non l’ha mai affrontata con scoramento o con retorica, ma con la calma lucida che aveva sempre avuto in missione. È stata, prima ancora che una diagnosi, il riflesso della totale impreparazione con cui l’Italia ha gestito per decenni la sicurezza dei propri operatori – militari, di polizia, umanitari. La mancanza di investimenti, di controlli, di tutele: quella è stata la vera arma di distruzione di massa.
Il nesso che lo Stato non vuole vedere Il nodo di tutto, nelle cause e nei ricorsi, si chiama nesso causale. È la distanza invisibile che separa la malattia dal riconoscimento, la vita dal diritto. Lo Stato chiede ai militari ammalati di dimostrare che il tumore o la patologia respiratoria siano conseguenza diretta dell’esposizione a uranio impoverito, amianto o radon. Ma nessuno ha mai misurato con rigore cosa respirassero nei poligoni o nelle basi.
Nessuno ha raccolto dati ambientali, nessuno ha conservato i campioni d’aria, di terreno, di tessuto. Così, il militare deve provare ciò che l’amministrazione non ha mai voluto documentare. La Commissione parlamentare d’inchiesta, nel 2018, ha scritto che «la mancanza di tracciabilità ambientale e sanitaria dei militari esposti compromette in modo sistemico la possibilità di accertare i nessi eziologici».
In termini concreti significa che, anche davanti a un tumore riconosciuto come tipico da esposizione – un mesotelioma, un linfoma non-Hodgkin, un carcinoma polmonare – la Difesa può ancora sostenere che non vi è certezza scientifica. È un modo elegante per dire che la responsabilità si dissolve nei margini dell’incertezza. Ma le cifre raccontano un’altra verità. Secondo le stime incrociate dell’Osservatorio Militare e dell’Osservatorio Nazionale Amianto, oltre settemila militari hanno sviluppato patologie riconducibili all’esposizione a uranio o amianto. Di questi, più di trecentocinquanta sono morti negli ultimi vent’anni, ma il numero reale dei decessi è probabilmente il doppio.
Le cifre ufficiali, quando ci sono, sono incomplete: si fermano alle domande accolte, non ai casi realmente accaduti. E in ogni faldone archiviato come “non riconosciuto” c’è una vita spezzata che scompare dalle statistiche. Tra i sopravvissuti, molti vivono in condizioni che non si possono chiamare vita. C’è chi ha i polmoni compromessi e non può più respirare senza ossigeno; chi ha perso la mobilità per metastasi ossee; chi è costretto a cure continue con chemioterapici e cortisonici.
Altri convivono con la paura costante della ricaduta, con la memoria di missioni svolte senza protezioni, con il rimorso di aver servito uno Stato che oggi non riconosce la loro malattia come conseguenza del servizio. Sono uomini che portano la guerra dentro il corpo, come un ordigno a rilascio lento. In molte perizie, la formula ricorre identica: «Impossibile stabilire un nesso certo, non escludibile tuttavia un contributo causale».
È il linguaggio della non-decisione, quello che salva l’istituzione ma condanna l’individuo. La scienza, quando manca la volontà politica, diventa uno schermo dietro cui nascondere la colpa. Eppure la medicina del lavoro, l’oncologia e la tossicologia ambientale concordano su un punto: non serve la certezza matematica per riconoscere un rischio professionale. Basta la ragionevole probabilità, quella che tutela il lavoratore. Nel mondo civile, questo principio vale per gli operai dell’Ilva o per i minatori di amianto. Ma non per i militari.
È qui che la questione smette di essere giuridica e diventa morale Lo Stato che non registra, non misura, non riconosce, diventa lo stesso Stato che costringe le famiglie a cercare giustizia da sole. E mentre nei tribunali si discute di cause e gradi di certezza, chi è sopravvissuto rimane in una zona grigia: tra una pensione d’invalidità ridotta, una causa pendente e la consapevolezza che la propria storia verrà dimenticata non appena si spegnerà l’eco dell’ultima udienza. La verità è che queste non sono storie militari, sono storie di lavoro.
Il lavoro della guerra e della pace, svolto dentro ambienti tossici, senza tutele, senza informazione, senza misure di sicurezza. Ma il nostro Paese non li riconosce come lavoratori. Li chiama «vittime del dovere», una formula che sa di pietà più che di diritto. Come se morire di tumore vent’anni dopo una missione fosse un gesto eroico e non la conseguenza di un’esposizione evitabile. Quando leggo le carte di mio padre e dei tanti come lui, sento che il loro destino non appartiene al passato ma al nostro presente civile.
Le “condizioni del paziente in costante scadimento” non sono più solo quelle di un corpo malato, ma quelle della nostra coscienza pubblica. Le metastasi di queste storie non passano mai. Rimangono come un segno intangibile dell’ingiustizia: ogni giorno senza giustizia è un giorno di lutto, ogni giorno di tardiva noncuranza è un respiro che manca.
Ho passato meno di cento notti accanto a mio padre, che sono diventate quasi cento anni nella storia della nostra anima. Sono invecchiato e mi son perso come un soldato anch’io, senza destino. A mio padre hanno tributato funerali solenni, e nella pena infinita di questi dieci anni ricordo solo pochi volti amici. Tutti o quasi se ne sono andati – chi morto per le stesse ragioni, chi non ha retto il peso e l’urto di quel lutto.
L’Italia celebra i caduti, ma dimentica gli ammalati. Onora i morti in battaglia e ignora quelli che muoiono a casa, con una diagnosi legata a ciò che lo Stato non ha voluto vedere. Eppure, sono loro il vero specchio della Repubblica: uomini che hanno creduto nel dovere, e che dal dovere sono stati consumati. Le loro sono le morti più bianche di tutte, perché non c’è sangue, non c’è clamore, non c’è colpevole. C’è solo un lento svanire sotto la pioggia dei giorni.
Come dice Paolo Conte, piove bene sugli impermeabili, ma non sull’anima. E forse è da lì, da quell’anima dimenticata, che dobbiamo ricominciare a guardare questa storia, per restituirle il suo nome, il suo peso, la sua verità. Per mio padre e per i militi ignoti. Morti di guerra in tempo di pace.
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