Dentro al futuro: Jonathan Anderson è il nuovo direttore creativo di Dior

Giugno 3, 2025 - 03:31
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Dentro al futuro: Jonathan Anderson è il nuovo direttore creativo di Dior

La prima volta che ho incontrato Jonathan William Anderson è stato più di dieci anni fa, su un taxi. O meglio, facevo finta di chiedere un indirizzo al tassista per creare l’illusione casuale per creare l’occasione di un’intervista improvvisata. «Dove vuoi che ti accompagni?», gli ho domandato. Lui, senza esitare, ha risposto: «Into the future». Non era una posa, non era un gioco di parole. Ma una dichiarazione d’intenti. Da allora, Anderson il futuro ha continuato a disegnarlo con ago, tecnologia e memoria. Da quel momento siamo diventati amici, o qualcosa che gli somiglia nel lessico perverso dell’industria della moda: cioè quella forma di simpatia che passa attraverso sguardi compiaciuti ai défilé e conversazioni sospese tra lo chiffon e il silenzio. Oggi che Jonathan è stato nominato direttore creativo assoluto di Dior: uomo, donna, haute couture, e ogni eventuale variazione sul tema, la notizia sembra insieme incredibile e inevitabile.

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È una scelta che segna un prima e un dopo. Una discontinuità evidente, una disrupture – come dicono quelli che non vogliono usare la parola “rivoluzione” ma intanto la mettono tra le righe. Maria Grazia Chiuri esce di scena, e la sua assenza lascia un vuoto che sa di un profumo che svanisce troppo in fretta: prima donna a dirigere la maison, ha avuto l’eleganza rara di portare il femminismo sulla passerella con mani lievi e intenzioni profonde, spesso fraintese da chi scambia la grazia per debolezza.

Il designer-filosofo: Jonathan e l’arte di cucire idee

Diciotto collezioni all’anno. Diciotto. Dieci per Dior, tra prêt-à-porter, couture e menswear. Sei per il marchio eponimo. Due per Uniqlo. A parole suona come un numero. Ma a viverlo, sembra un attacco di vertigine. Eppure, è ciò che ora aspetta Anderson: supervisionare tutto l’universo creativo di Dior. Non accadeva dai tempi di Christian in persona. Un gesto che somiglia più a un patto faustiano che a una promozione aziendale. E se Dior non è un marchio, ma un continente emotivo, culturale, economico, è facile intuire che qui non basta essere bravi.

Jonathan Anderson, nuovo direttore creativo di Dior.

Bisogna essere necessari e multitasking. Anderson lo è? La risposta è sì, se per “bravo” intendiamo qualcuno che ha fatto del pensiero una trama, e della trama un pensiero. Con JW Anderson, ha costruito un suo alfabeto estetico. Ha trasformato il concetto di genere in una geometria variabile, dove la maglieria è filosofia, le silhouette sono interrogativi. È la moda come codice e decostruzione: ogni capo è un’opinione tagliata al vivo. Con Loewe è andato oltre: ha trasformato una casa di pelletteria madrilena in una fabbrica concettuale che sfiora l’arte contemporanea. La pelle diventa materia scultorea. Le borse, architettura. I maglioni, tweet tridimensionali. Le scarpe citano Lucio Fontana, e il soft power coreano. Come se l’artigianato e la tecnologia si fossero sposati, producendo un’estetica che sa essere insieme fredda e sensuale, cerebrale e fisica. Lui stesso dice: «Gestisco la mia attività e non è affatto facile. Con Loewe, voglio portare il marchio a un certo livello e ci sono fino a quando non ci arriveremo. E quando ci saremo arrivati, vorrò ricominciare da capo». È questa l’essenza di Anderson: un perfezionista errante. Un esploratore instancabile che, appena arriva in vetta, sente il bisogno di ripartire da zero.

Dietro l’illusione: il creativo nell’epoca del controllo

È come se in lui convivessero l’artista William Morris e un programmatore di Seoul: il culto della manifattura e la freddezza iperestetica del contemporaneo. Ma ora arriva la sfida più grande: Dior non è un marchio. È un continente. Con i suoi flagship store, i suoi santuari dorati e la sua aura che aleggia tra Versailles e TikTok, la maison è tutto tranne che una tela bianca. Un singolo errore diventa subito ideologia. Eppure, Anderson potrebbe farcela. Non perché sia infallibile, ma perché è uno di quei rari creativi che riescono a fare ordine nel caos senza impoverirlo.

Dalla sfilata PE 2025 di J.W.Anderson.

Molti ancora oggi pensano allo stilista come a una creatura inafferrabile, che crea in una torre d’avorio, protetto da assistenti e mistero. Ma Anderson è il primo a demolire quell’immagine: «Questo lavoro non riguarda solo le sfilate. È un’illusione pensarlo: ci sono visual merchandising, negozi, pubblicità… Sono almeno il 70 per cento del mio lavoro; le sfilate sono una parte minore». La verità? Lo stilista oggi è un direttore d’orchestra aziendale, più vicino a un architetto operativo che a un sognatore solitario. Il suo ruolo si svolge tra i codici Pantone e i file Excel, i rendering 3D e le agende di marketing. Anderson non si nasconde dietro l’idea romantica dell’artista, ma abbraccia la complessità del sistema, anzi la governa con quella che potremmo chiamare “bellezza funzionale”.

Dagli abiti trompe-l’oeil alla collaborazione con Guadagnino da cui è nata anche la maglietta I told ya (dal film Challengers) e la campagna con Daniel Craig (dal film Queer).

Parla molto, ma osserva tutto. Sogna moltissimo, ma è perfettamente sveglio. Un altro elemento che distingue il suo approccio è la consapevolezza ambientale. Ma non come moda della moda. Piuttosto, come dovere etico. «Odio quando la sostenibilità è utilizzata come strumento di marketing – la considero un obbligo». E ancora: «Tutti parlano dell’ambiente, ma se capissimo davvero come vengono realizzate le cose – e le persone e i lavori coinvolti – potremmo apprezzare di più un prodotto». C’è, in queste parole, una verità spesso taciuta: che la sostenibilità è conoscenza. E la conoscenza, oggi, è la forma più nobile di bellezza.

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L’illusione dell’avorio: Anderson dietro le quinte

««Ci vedono su in una torre d’avorio, impegnati a essere elusivi e creativi, ma alla fine è un dialogo continuo con ogni livello. Non credo che oggi ci si possa permettere di essere fantasiosi quanto prima», mi ha detto una volta, mentre giravamo tra i prototipi in un atelier che profumava di colla e silenzio. «Serve un controllo della realtà». La frase potrebbe essere attribuita a un ingegnere, e invece l’ha detta un artista. Questa umiltà operativa è ciò che lo rende raro. Anderson ha una concezione amministrativa della creatività. Sa che oggi uno stilista non è solo un demiurgo della passerella, ma un amministratore dell’immaginazione, una figura a metà tra il CEO e il cartografo. Il suo lavoro non finisce con l’ultima cucitura dell’abito, ma continua tra visual merchandising, ADV, vetrine, siti web, showroom e logistica. Ogni volta che lo sento parlare, penso che in lui convivano due forze: la disciplina del progettista e il pudore del poeta. Un irlandese che sa essere moderno come un algoritmo e lirico come Yeats.

La campagna di Loewe con Daniel Craig.

Ora che Anderson prende le redini dell’intero universo Dior, la vera domanda è: riuscirà a tenere in equilibrio le sue visioni colossali con le richieste di una macchina globale? Sì. Ma a modo suo. Con lo sguardo obliquo di chi osserva il sistema da dentro, ma continua a trattarlo come un esperimento antropologico. È curioso, sì, che per raccontare il femminile del futuro si sia scelto ancora una volta un uomo. Ma forse oggi la questione non è più il genere, ma la capacità di comprendere l’altro. E se c’è qualcuno che può raccontare il mistero dell’identità — maschile, femminile, trans, fluida, aliena — è proprio lui: quel ragazzo timido che un giorno in taxi mi ha detto che andava nel futuro. Jonathan ora entra nel tempio di Dior, ci resta solo da augurargli non solo coraggio, ma grazia: perché creare moda in questo tempo, tra algoritmi, geopolitiche e avatar, è un atto tanto mistico quanto strategico. E lui, ha l’intelligenza per affrontarlo. Sia benedetto, dunque, il nuovo inizio. E che Dio e Dior gliela mandino buonissima.

Dalla sfilata uomo PE 2023 di Loewe.

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