Due volte all’estero in una settimana

Questa settimana, per curiosità e per lavoro, sono stato due volte all’estero.
La prima volta è stata una sera. La Rai trasmetteva in diretta Roberto Benigni dai Giardini del Vaticano: due ore e mezza di monologo, senza pubblicità, senza tregua. Un tempo lungo, quasi insolente, in cui il mondo, per una volta, non ti chiede di scorrere: ti chiede di restare. Benigni ci ha portati dentro la storia di Simone che diventa Pietro. Ma la cosa che mi è rimasta addosso non è “la trama”: è il gesto. Prendere l’ordinario e farlo vibrare di straordinario. Persone, luoghi, gesti che pensiamo di conoscere e restituirle come se fossero nuove. Non è solo teatro, non è solo fede: è attenzione. E l’attenzione, oggi, è rara.
La seconda volta all’estero è stata il giorno dopo. Per lavoro, siamo entrati anche noi nella Città del Vaticano: quel pezzo di mondo che a volte diamo per scontato come fosse un quartiere di Roma, e invece è una soglia. Ci metti un piede e capisci che non stai semplicemente visitando un luogo: stai attraversando strati di storia, di arte, di potere, di domande. Avevamo una guida molto esperta. Competente, erudita, precisa. A un certo punto ci ha detto: “Io sono stato qui circa quattromila volte”. L’ha detto con naturalezza, come si dice “prendo un caffè”. E mi ha colpito: anche la meraviglia, se la tocchi ogni giorno, rischia di diventare mestiere.
Siamo entrati dal Cortile della Pigna. Questa immagine è il fotogramma giusto per iniziare: non è “la Sistina”, non è l’icona più famosa, e proprio per questo ti aiuta. È il punto in cui capisci che qui il tempo non scorre soltanto: si deposita. Poi si arriva al momento che tutti aspettano: la Cappella Sistina. Dentro non si può fotografare e, in teoria, non si può parlare. In teoria. In pratica, quando siamo entrati, abbiamo assistito a una scena piccola e rivelatrice: c’erano persone che parlavano ad alta voce, si agitavano, occupavano lo spazio. Erano custodi e guardie.

Non lo racconto per accusare. Lo racconto perché mi è sembrata una parabola: essere a pochi metri dal meraviglioso e non accorgersene più. Essere lì per custodire e, per un attimo, non custodire nemmeno il silenzio.
E lì mi è venuta in mente una cosa che non c’entra con i musei e c’entra con tutto: il Padre nostro. Non come bandiera religiosa, ma come frase comune, ripetuta da generazioni. Una cosa che molti ricordano anche se non credono, o non credono più. Recitandolo, mi ha colpito un dettaglio che non avevo mai ascoltato davvero: quante volte tornano tuo/tua e nostro/nostri. È un movimento. Un’onda. Una piccola grammatica della responsabilità.
Si apre con “Padre nostro”. Non “Padre mio”. È già un cambio di postura: non sono un’isola. Anche se prego da solo, porto dentro un “noi”. Poi arrivano tre frasi che insistono sul “tuo” e sulla “tua”: “sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà.” Tre volte. Come un gesto di decentramento: prima di chiedere, riconosci. Prima di mettere te al centro, fai un passo indietro. Prima di trasformare il mondo in un’estensione dei tuoi desideri, accetta che non tutto ti appartiene. E poi il testo torna al “nostro” con una concretezza che spiazza: pane, debiti, perdono, tentazione, male. Non parla di concetti: parla di vita.
C’è una frase che, ogni volta, mi sembra la più esigente: “come noi li rimettiamo ai nostri debitori.” È quasi una clausola: trattami come io tratto gli altri. E anche se togli Dio dall’equazione, resta un criterio che fa tremare: chiedo un mondo più umano, ma sono disposto a esserlo? Chiedo ascolto, ma ascolto? Chiedo rispetto, ma lo pratico?
Oggi è il 13 dicembre, Santa Lucia. Stiamo entrando nella stagione della cacofonia: cene, auguri, pacchetti, frasi automatiche, corse. Una parte di noi ne ha bisogno, perché è calore e incontro. Un’altra parte sente già la stanchezza. E allora mi chiedo se la lezione di questa settimana, tra Benigni e i Musei Vaticani, non sia semplice e urgente: non smettere di meravigliarsi. Non della cartolina, non dell’ennesima cosa da esibire, ma di quel punto in cui una parola, una scena, un volto tornano vivi.
E infatti il vero finale, per me, non è dentro ai Musei Vaticani. È avvenuto dopo, quasi per caso. Durante la visita per lavoro abbiamo incontrato anche uno storico professionista: uno di quelli che accompagnano le grandi delegazioni internazionali, quelle del G20, per capirci, a visitare la città.
Una persona abituata a volare veloce tra geopolitica ed economia quando parla con ambasciatori e ministri, e allo stesso tempo capace di scendere nei dettagli di una via, di un vicolo, di una statua, come se Roma fosse una lingua madre.

È uno di quegli uomini austeri e affascinanti che sanno trovare ponti improbabili: tra un papa e un ministro cinese che non ha mai sentito nominare Gesù; tra una colonna e una decisione economica; tra una data e una vita. Poi, la sera, l’abbiamo ritrovato per caso a Termini, prima di prendere il treno del ritorno. Ci ha riconosciuti, si è avvicinato, e ci siamo seduti a un tavolino a parlare ancora un poco. E lì ho capito cosa succede quando la competenza si fonde con l’umano. Quando l’erudizione smette di essere una vetrina e diventa sapienza.
La differenza, forse, è tutta qui: la sapienza non ha perso la curiosità. Non ha perso la voglia di scoprire e condividere. Non ha perso il desiderio di far entrare l’altro nel proprio sguardo. E non ha perso la capacità di vedere lo straordinario nell’ordinario, come Benigni, ma in un modo più quieto, più quotidiano. Ecco il messaggio che mi porto a casa: non smettiamo di meravigliarci. Non tanto di ciò che c’è “attorno” a noi, ma di ciò che può splendere, germinare, illuminare da dentro, e poi uscire fuori, negli incontri, nelle parole, nei gesti.

Forse, mentre ci avviciniamo al rumore delle feste, la cosa più preziosa non sarà fare di più. Sarà fare spazio. Per stare bene con noi stessi. E per incontrare gli altri dove stanno loro. E se serve una bussola piccola e concreta, la riassumiamo così: il “tuo” che ti decentra, il “nostro” che ti rimette nel mondo, e quel “come noi” che ti chiede, piano, di diventare la risposta che stai invocando. Guardi una stella e ne vedi due. L’altra sei tu.
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