Il melonismo economico punta alle élite per rendere stabile il potere politico

Questo è un articolo de Linkiesta Magazine 03/25 – Senza alternativa. Si può acquistare qui.
Il governo Meloni ha compiuto tre anni nei quali la sua azione, in campo economico, si è vista anche fuori dai palazzi e dalle istituzioni. La linea seguita dall’esecutivo più a destra della storia repubblicana non nasce solo dentro Palazzo Chigi, e tantomeno si esaurisce in Parlamento, dove una solida maggioranza garantisce i voti sia alla Camera sia al Senato. C’è anche un altro piano su cui Giorgia Meloni si muove secondo una logica premeditata già dalle sue prime esperienze di governo, con Silvio Berlusconi, e poi nei lunghi anni passati all’opposizione. È un piano più culturale che politico, più di sistema e meno elettorale. È il piano dove si esercita quel potere economico e finanziario che non esce mai dalle urne, ma si costruisce nel tempo e senza il quale non può avvenire né un reale cambio di sistema politico né un’autentica alternanza di governo.
Da qui bisogna partire se si vogliono comprendere a fondo i cambiamenti avvenuti in questi mesi nelle banche e in economia. Non parliamo delle riforme fiscali o previdenziali di cui in ogni manovra finanziaria vediamo muoversi qualcosa. E neppure di un’infrastruttura come il Ponte sullo Stretto: per quanto concerne ciò che sta nel programma di governo, in tema di politica economica si muovono i ministeri e si vota in Parlamento.
Qui parliamo di cambiamenti nel sistema di potere dell’economia, studiati da Meloni in prima persona anche attraverso consulenze illustri e messi a terra grazie alla regia del trio di fedelissimi composto da Giovanbattista Fazzolari, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri, Gaetano Caputi, capo di gabinetto, e Alfredo Mantovano, altro sottosegretario. Oltre che del garante per il mercato finanziario Giancarlo Giorgetti, l’unico ministro importato – non a caso – direttamente dal governo Draghi. L’obiettivo perseguito dalla presidente del Consiglio fin dal suo ingresso a Palazzo Chigi era quello di espugnare le casematte del potere economico e finanziario considerate più vicine alla sinistra.
In questa logica, Meloni ha giocato su un modello a due piani: il primo è quello tradizionale del consenso elettorale che, tradotto in termini economici, significa cavalcare le misure simbolo del proprio bacino sociale, con il quale la premier sa comunicare direttamente, magari allargandolo il più possibile a giovani e lavoratori. Partite Iva, categorie come balneari o tassisti, turismo, agricoltori e così via: il consenso della società liquida.
Il secondo piano è quello che sta sopra: dalle trincee dei poteri forti, stratificate nel tempo e organizzate nei salotti, alle élite dei corpi intermedi, di Confindustria, Associazione Bancaria Italiana (Abi) o Coldiretti. È un altro tipo di consenso, più difficile da avvicinare e ottenere. È quel consenso solido che dà sostanza all’azione politica. In questa chiave il risiko bancario che ha segnato il 2025 è l’esempio più evidente: la conquista di Mediobanca da parte del Monte dei Paschi di Siena – che con la partecipazione o meno del Banco Bpm è comunque finalizzata alla creazione del terzo polo bancario del Paese – è l’operazione che più di tutte rappresenta il nuovo sistema di potere.
In cima alla catena c’è una banca, Mps per l’appunto, che per una beffa del destino, negli ultimi quindici anni è passata dal rappresentare una roccaforte del potere finanziario rosso, all’essere salvata dal fallimento con i soldi dello Stato, fino a tornare viva e vegeta proprio quando al governo è arrivata la destra. Che, cogliendo al volo l’occasione, ha riprivatizzato il Monte aprendolo all’ingresso di due imprenditori che da oltre un decennio, nonostante le abbondanti risorse investite nel sistema finanziario nazionale, erano tenuti ai margini dell’establishment, privi perciò di un pedigree radical chic.
Da una parte Francesco Gaetano Caltagirone, genere palazzinaro romano nonché editore di Messaggero, Gazzettino e Mattino, dall’altro Leonardo Del Vecchio, genere miracolo italiano, il cui testimone, dopo la scomparsa avvenuta nel 2022, è stato raccolto dal manager di fiducia e di famiglia Francesco Milleri. Entrambi, Caltagirone e Del Vecchio, avevano provato a più riprese di arrivare nella sala dei bottoni delle Assicurazioni Generali, l’unico gruppo finanziario privato italiano di peso internazionale, arrivando a investire qualche miliardo di euro, ma senza mai toccare palla per le barricate alzate a Milano da Mediobanca, custode unico dei destini delle Generali fin dai tempi di Enrico Cuccia.
Di qui la scintilla per il lampo di genio meloniano: l’occasione, in un solo colpo, di ribaltare la finanza del nord, porre fine alla supremazia del salotto milanese di Mediobanca e sostituire i vecchi poteri forti (qualsiasi cosa questo termine possa evocare nel centrodestra) con un nuovo potere, romanocentrico e molto più politico. Di qui l’offerta lanciata da Mps su Mediobanca, conclusasi con la clamorosa vittoria che apre ora la strada verso Trieste e le Generali. Non a caso il ceo di Mediobanca, Alberto Nagel, nel giorno della sconfitta ha commentato citando Orazio: «Graecia capta ferum victorem cepit», dove il barbaro vincitore è il potere romano, che però finisce conquistato dalla sua stessa preda: la Milano della grande finanza. Vedremo se sarà così.
Per ora la citazione colta sembra più una consolazione per chi deve lasciare strada al nuovo potere meloniano. Che entra là dove il centrodestra berlusconiano non era mai riuscito a sfondare, fermandosi sempre ai margini, senza mai consolidarsi. «Roma – ha commentato Giorgio La Malfa, ottantacinque anni, politico di lungo corso, autore di “Cuccia e i segreti di Mediobanca” – ha sempre visto questo mondo come un’entità straniera da conquistare. Vogliono prendere Mediobanca per conquistare Milano, il Paese e mantenere il potere più a lungo possibile». D’altra parte, Milano è centrale in questo modello di potere. Lo dimostrano anche gli editori più vicini al governo, la famiglia Angelucci, con l’acquisto, nel 2023, del Giornale, secondo quotidiano milanese dopo il Corriere, schierato fin da subito sul fronte governativo in ogni partita economica, al pari delle altre testate degli Angelucci, Libero e il Tempo.
Il metodo dei due consensi – quello liquido elettorale e quello solido dei poteri forti – nel rafforzare la presa di Meloni sull’economia e di riflesso su una nuova società civile, trova il suo campo di applicazione più evidente nel rapporto con i corpi intermedi quali Confindustria o Abi, abilmente arruolati, più o meno platealmente, al proprio fianco. Così Meloni ha posto le basi perché la propria leadership entrasse in sintonia con un altro pezzo di élite economica. Mentre al piano di sotto, con gli industriali, Giorgia aveva già raccolto un cospicuo credito di fiducia. Basta andarsi a rivedere i voti che Fratelli d’Italia ha preso, nel 2022, in Veneto e Lombardia, quadruplicando i consensi rispetto a un passato irrilevante.
Nonostante gli industriali abbiano portato a casa poco dalle ultime due finanziarie, salvo il modesto taglio del cuneo fiscale, non c’è stata una sola assemblea di categoria che ha contestato Meloni, sempre accolta con applausi e ovazioni. Segno che il feeling con la base veniva da lontano e che bastava alimentarlo con posizioni condivise, come la critica al green deal, per tenerselo stretto.
Completa il quadro il rapporto con l’agroalimentare che, in chiave sovranista, ha rappresentato fin da subito un terreno importante per il governo Meloni. A presidiarlo c’è un altro fedelissimo come l’ex cognato Francesco Lollobrigida, impegnato nella valorizzazione della filiera italiana. E nella costruzione del rapporto con la Coldiretti di Ettore Prandini, l’associazione dei produttori nazionali. È una terza gamba, dopo quelle finanziaria e industriale, che questo governo ha visto bene di non trascurare, anche per le naturali affinità politiche con il mondo dei padroncini agricoltori.
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