Il primo piatto più famoso al mondo esiste in molti altri modi

Ottobre 26, 2025 - 06:30
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Il primo piatto più famoso al mondo esiste in molti altri modi

«Mangiamo pasta a colazione, pranzo e cena. E anche negli spuntini: a metà mattina e nel pomeriggio», spiega Jianguo Shu, fondatore di Dao Restaurant (in cinese “Tao”, ossia il principio che muove l’universo). Del menu la pasta è un capitolo importante, ma nella Cina millenaria è uno dei piatti principali, tanto che la tavola non è completa senza una porzione di noodles e ravioli. Lunga o ripiena; a base di farina di riso o di grano; fredda, saltata o in brodo: l’alimento che innerva la tradizione culinaria italiana ha trovato in Cina una variegata modalità d’espressione. Secondo Nature, la prima attestazione di pasta in Asia risale al 2000 a.C. È sull’alto fiume Giallo, tra le province di Qinghai e Gansu, che gli archeologi rinvennero una ciotola capovolta che custodiva gli antenati degli attuali noodles, a base di miglio.

Da un’iniziale consistenza poco elastica ottenuta dalla lavorazione del gel di miglio, la pasta cominciò ad assomigliare al prodotto che oggi s’incontra sulle tavole asiatiche intorno al 1000 a.C., quando nel Nord della Cina si diffuse la coltura del frumento. Il glutine contenuto nel grano conferiva elasticità all’impasto che in questo modo poteva essere lavorato più facilmente, in gergo “tirato”. Le fertili pianure del Nord divennero il terreno d’elezione per la produzione anche del pane a vapore e dei ravioli (i noti jiaozi); al contrario il Sud si prestava maggiormente alla coltura del riso, impiegato in varie preparazioni, tra cui gli spaghetti (in cinese mifěn o mixiàn) o gli gnocchi. Stando alle parole di Jianguo Shu: «Un pasto al Sud non è completo senza riso». È tuttavia nel Nord che i contadini hanno iniziato a sperimentare nuovi formati e tecniche d’avanguardia.

Sotto la dinastia Song (960-1279) la pasta s’affermò anche come fenomeno economico e sociale. Nei mercati notturni ai banchetti temporanei si affiancavano case da tè e ristoranti intenti a servire prodotti a base di grano lavorati al Nord. Brodi profumati e cottura al wok feceroparte della vita cittadina nelle grandi piazze di Kaifeng e Hangzhou, rispettivamente nella parte centrale e meridionale della Cina. Quest’ultima deve la sua fama a Marco Polo che ne “Il Milione” la soprannominò: «Città del cielo» per la ricchezza che vi trovò.

Nel Mediterraneo la pasta era già nota con le lagane del periodo greco-romano, ma in Sicilia ha assunto la rinomata forma moderna. Nel 1154 il geografo arabo Muhammad al-Idrīsī raccontò alla corte di Ruggero II la produzione dell’itriyya, una pasta secca a lunga conservazione prodotta a Trabia, nei pressi di Palermo, e già esportata via mare verso il Nord Africa e l’Europa. Tra il tredicesimo e il quattordicesimo secolo Genova divenne uno snodo strategico per la sua produzione e il commercio, e nei secoli successivi Napoli e Gragnano si affermarono come capitali della pasta grazie al clima favorevole all’essiccazione e alla vicinanza ai porti.

Da un lato armonia che si esprime nella condivisione di un pasto preparato e gustato insieme, dall’altro convivialità intesa come adesione a uno stesso sistema valoriale, la pasta si fa lingua franca per due culture che al livello simbolico sembrano condividere poco. Jianguo Shu specifica che: «Tradizionalmente in Cina si usa cucinare e mangiare tutti insieme in casa; al ristorante le ordinazioni arrivano contemporaneamente e vengono messe al centro del tavolo per essere condivise». È lo spirito del dim sum, letteralmente “che tocca il cuore”. Con questa espressione s’indicano i piatti a base di ricette leggere che accompagnano il tè cinese o fungono da pranzo.

Il proprietario di Dao Restaurant racconta che ogni piatto nella gastronomia cinese ha un significato diverso; gli involtini primavera si chiamano così perché venivano consumati durante la festa celebrata dopo una rigida stagione invernale. In occasione dei compleanni, si usa cucinare i changshou miàn, “noodles della longevità” che si dice portino fortuna. Allo stesso modo i jiaozi originari di Pechino e del Nord della Cina sono considerati di buon auspicio per via della loro forma, un tael d’oro, moneta tradizionale. Con xiaomai (“dritto al cuore”) ci si riferisce ai ravioli aperti di farina di grano che assomigliano a dei fiori, abbelliti da un tocco di colore che può essere dato da piselli o uova di pesce. Ognuno di questi piatti si può intingere nella salsa agrodolce, piccante o di soia con le quali Jianguo Shu orna il suo tavolo ogni giorno. Durante un lungo pasto si bevono grappa e birra cinese Tsingtao.

Sebbene Dao Restaurant s’ispiri alla cucina delle province Zhejiang, Guangdong e Sichuan (nel Sud del Paese), comprende anche molti piatti noti al Nord e utilizza alcune delle materie prime italiane. Per il ripieno dei jiaozi s’impiega il maiale di Cinta Senese. «Il mio obiettivo – racconta Jianguo Shu – è portare in Italia l’alta cucina cinese, cercando proposte di qualità che invitino a scoprire una cultura diversa». Una sfida non banale in un contesto in cui l’etichetta “fusion” e l’offerta low cost hanno spesso offuscato la percezione di una tradizione tecnica e raffinata. Per decenni in Europa l’offerta cinese si è adattata al gusto locale, spesso in chiave economica. Oggi però il quadro internazionale racconta altro: ricette raffinate, brodo e zuppe artigianali e una nuova generazione di cuochi che presidia anche il “fine dining”, come attestano le più recenti selezioni della Guida Michelin in Cina.

Il Rapporto Ristorazione 2024 di Fipe-Confcommercio mette in evidenza le oltre diecimila aperture nel nuovo anno, un dato che conferma la forte mobilità del mercato e lo spazio per format di alta qualità. In questa cornice, la pasta cinese in Italia non è un’alternativa ma un complemento perché si radica in un Paese che resta leader mondiale per produzione e consumi, con circa due milioni e mezzo di tonnellate di pasta esportate nel 2024 (circa il sessanta per cento della produzione), per un valore vicino ai quattro miliardi di euro.

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