Le sanzioni di Trump spingono la Cina a limitare gli affari con Putin

Le sanzioni degli Stati Uniti ai colossi del petrolio russo Rosneft e Lukoil colpiscono tutto il fronte delle autocrazie globali. Le principali compagnie statali cinesi infatti hanno deciso di sospendere le loro importazioni di greggio russo via mare. Una mossa che, se confermata, potrebbe ridurre drasticamente le entrate energetiche del Cremlino. Ma che rischia anche di incrinare l’asse energetico tra Russia e Cina, costruito con cura negli ultimi tre anni di guerra.
Secondo Reuters e Bloomberg, le grandi aziende cinesi dell’energia – PetroChina, Sinopec, Cnooc e Zhenhua Oil – hanno annullato o congelato una serie di contratti per il greggio ESPO, il blend siberiano esportato dai porti dell’Est russo. È una decisione dettata più dalla prudenza che dalla politica: Donald Trump ha introdotto anche sanzioni secondarie, cioè misure che puniscono anche chi commercia con le aziende sanzionate. Per Pechino, perdere l’accesso al sistema finanziario in dollari sarebbe una catastrofe maggiore di qualche mese di stop al petrolio russo.
Il messaggio di Trump è stato diretto: «Putin rifiuta la pace, perciò sanzioniamo le sue due più grandi compagnie», ha detto il segretario al Tesoro Scott Bessent. «Ora è il momento di fermare le uccisioni». Ma se la Casa Bianca sperava in una pressione immediata su Mosca, avrebbe dovuto calcolare anche un effetto collaterale di grande impatto nel mercato energetico mondiale: il prezzo del Brent è salito di oltre il sette per cento in una settimana e le compagnie asiatiche sono corse ai ripari.
Quella della Cina, ufficialmente, è una protesta: «La Cina si oppone alle sanzioni unilaterali che non si basano sul diritto internazionale e non sono autorizzate dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite», dice il portavoce del Ministero degli Esteri. Ma in realtà si può leggere come una mossa di estrema cautela diplomatica. Si sospendono temporaneamente gli acquisti di petrolio russo via mare. Le importazioni via pipeline, invece, continuano: circa novecentomila barili al giorno, gestiti da PetroChina, restano per ora fuori dai bersagli americani. Anche perché il greggio trasportato via mare passa attraverso canali finanziari e assicurativi in dollari, mentre quello via terra resta dentro il recinto delle relazioni bilaterali sino-russe. È la prova che Pechino, pur alleata di Putin, conosce bene i limiti del proprio margine di manovra.
Il problema, per Washington, è che questa decisione rischia di riaprire un delicato fronte economico con la Cina a pochi giorni dal vertice bilaterale tra Donald Trump e Xi Jinping in Corea del Sud del prossimo 30 ottobre. Sarà il primo incontro faccia a faccia tra i due leader dal ritorno di Trump alla carica.
Tra l’altro le compagnie cinesi potranno aggirare i divieti americani comprando attraverso intermediari, come già fanno quasi tutti con i cosiddetti “teapots”, i piccoli raffinatori indipendenti: la maggior parte degli 1,4 milioni di barili di petrolio russo che arriva ogni giorno in Cina via mare segue questo percorso; gli acquisti da parte delle aziende statali si attestano a meno di duecentocinquantamila barili al giorno. Ma il messaggio politico è chiaro: nessuno, nemmeno Pechino, è immune alla forza coercitiva americana e l’alleanza tra Mosca e Pechino si regge su equilibri fragilissimi quando c’è da bilanciare interessi economici e impegni politici.
L’impatto delle sanzioni americane si estende anche all’India. New Delhi – finora il principale acquirente di petrolio russo via mare – ha annunciato una revisione delle importazioni. Persino Reliance Industries, il colosso del miliardario Mukesh Ambani e simbolo della neutralità pragmatica indiana, ha fatto sapere che «ricalibrerà» le forniture per evitare guai con Washington.
E ovviamente in questo gioco di sanzioni rientra anche l’Unione europea, per altri motivi. Ieri Politico scriveva: «La sorprendente decisione di Donald Trump di sanzionare le più grandi compagnie petrolifere russe non paralizzerà la macchina da guerra di Vladimir Putin, ma aiuterà l’Unione europea ad affrancarsi dal petrolio russo». Perché i Paesi e le aziende europee che hanno continuato a importare energia saranno inevitabilmente costretti a riconsiderare i loro affari entro il 21 novembre, quando entreranno in vigore le sanzioni.
Per la Russia, e la sua capacità di portare avanti la guerra, è un colpo pesante: India e Cina rappresentano quasi l’ottanta per cento delle esportazioni di greggio russo (l’Europa, dopo il 2022, pesa molto meno). Senza di loro, il rubinetto del Cremlino rischia di prosciugarsi. Secondo le stime della Kyiv School of Economics, le entrate energetiche russe sono già scese del venti per cento nei primi nove mesi del 2025. L’effetto delle nuove sanzioni potrebbe accelerare il crollo. E per la prima volta, la guerra in Ucraina potrebbe davvero costare cara anche agli amici di Vladimir Putin.
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