La geografia della moda parla francese. Con il forfait di Londra, è Parigi a dominare

Giugno 20, 2025 - 13:30
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La geografia della moda parla francese. Con il forfait di Londra, è Parigi a dominare
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Per la prima volta dopo anni, come annunciato dallo stesso British Fashion Council, (Bfc), la London Fashion Week non figura nel calendario internazionale delle sfilate, facendo così saltare il primo appuntamento del mese di giugno, tradizionalmente dedicato alle collezioni maschili. Un vuoto simbolico, ma presto anche culturale, sintomo di un sistema che rischia di uniformarsi sempre più, aprendo interrogativi profondi sul presente e sul futuro della ‘geografia della moda’. Perché, sebbene la notizia sia passata in sordina – complice anche il poco stupore generale, dal momento che la crisi della manifestazione era già ampiamente discussa dai media di settore – a mancare non è solo un appuntamento storicamente importante per gli addetti ai lavori, ma un intero polo creativo che, per decenni, ha fatto da trampolino di lancio per talenti i cui nomi oggi figurano nei libri di storia della moda. In un contesto sempre più polarizzato tra Milano e Parigi – con quest’ultima che catalizza ormai l’intero parterre creativo, dai big brand ai giovani emergenti – la parabola discendente di Londra racconta molto più di una crisi congiunturale. È il segnale di un sistema che fatica a sostenere la sfida dell’oggi, diviso tra costi in continua crescita, creatività spesso non adeguatamente sostenuta e uno scenario geopolitico – nello specifico, il post-Brexit – che amplifica le difficoltà.

Eppure, guardando alla nota diramata lo scorso aprile dal Bfc, la mancata tappa londinese si configura, tra le righe e qualche interrogativo, come un riassetto strategico che punta comunque a una maggiore presenza internazionale. Secondo quanto comunicato, il Bfc offrirà ai suoi designer una vetrina all’interno di uno showroom a Parigi, dal 26 giugno al 1° luglio 2025, ritenendo la presenza nella capitale francese un’opportunità commerciale cruciale per la crescita dei brand – che, com’era prevedibile, da diverse stagioni hanno iniziato a migrare all’ombra della Tour Eiffel.

Così, la London Show Rooms sarà presente quattro volte all’anno in occasione della settimana della moda parigina, seguendo anche la crescente propensione dei marchi a presentare collezioni co-ed a febbraio e settembre. Tutto però – come spiega a Pambianco Magazine Giuliana Matarrese, critica di moda ed editor at large per Linkiesta Etc – “sa di sconfitta. Per tutti, non solo per Londra. Perché meno fashion week vuol dire un maggiore appiattimento culturale, e questo appiattimento non funziona mai”.

Il nodo dei costi diventati “insostenibili”

Come anticipato, la responsabilità di questa momentanea disfatta non ricade solo sulle istituzioni, ma anche su questioni di carattere prettamente politico. “Londra e il suo comparto moda da anni affrontano difficoltà legate alla Brexit – precisa Matarrese –. Scattare lì (fare dei servizi fotografici, ndr.) costa di più, spedire gli abiti costa molto di più, sia mandarli che riceverli. Una serie di questioni logistiche che inevitabilmente si riflettono sull’organizzazione della fashion week. Anche i giovani designer, quando possono, sfilano altrove. I costi sono diventati insostenibili. Eppure ci sono tanti brand inglesi meravigliosi in termini di creatività. La domanda ora è: in questa economia quanto possono durare? Rispetto al passato, oggi servono molti soldi per rendere un brand rilevante”.

Così, a mettere in fila i nomi che sono migrati su altre ‘piazze della moda’, la lista si allunga. Una fuga che già un anno fa The Guardian definiva “The Great Fashion Brexit”, a indicare l’esodo di tutti quei marchi che – ancora una volta a causa dei costi troppo alti – avevano deciso di fare le valigie (in alcuni casi con l’intero team) e sfilare tra Milano e Parigi. Tra coloro che hanno scelto il capoluogo lombardo (anche se non tutti sono poi rimasti stabilmente) ci sono JordanLuca, Dunhill, Martine Rose e David Koma. Altri, invece, hanno optato per Parigi: Victoria Beckham, un tempo tra le principali attrattive della settimana londinese, ha trasferito la sua sfilata nella capitale francese nel 2022. Dopo di lei, anche Grace Wales Bonner e Bianca Saunders hanno seguito l’esempio, dimostrando come neanche la forza dei giovani designer riesca più a reggere la sfida britannica. Proprio Martine Rose dichiarava al quotidiano britannico di sentirsi “molto scoraggiata e triste per il panorama della moda londinese, davvero demoralizzata”. Tanto che metà del suo team si è poi trasferito a Milano.

“Londra era diversa proprio per questo: per la forza dei giovani – sottolinea Matarrese –. Ma se anche quello viene meno, non ha più senso andarci, nemmeno per i giornalisti. Non si vola più su Londra, come ormai non si vola più su New York, a meno di eventi specifici. Il baricentro resta Milano e Parigi. Purtroppo è una conseguenza prevedibile delle politiche britanniche. E al momento non vedo una luce in fondo al tunnel. Le aziende oggi hanno meno budget per mandare giornalisti in giro per un mese intero tra New York, Londra, Milano e Parigi. C’è meno scambio, meno circolazione”.

Rimane dunque la Grande Mela, dove l’impresa del rilancio non sembra meno complessa. Ed è infatti notizia di inizio maggio che la settimana statunitense si affiderà alla neonata organizzazione Kfn per ritrovare rilevanza e vitalità. In questa operazione, il Council of Fashion Designers of America resterà centrale nella gestione del calendario, ma accoglie “con favore l’impegno di Kfn a supporto del settore in generale, in linea con la missione del Cfda”, ha dichiarato Steven Kolb, CEO del Cfda, come riportato da Vogue Business. Qui, gli ultimi viaggi parigini sono stati quelli di Tom Ford (passato da Milano a Parigi sotto la guida artistica di Haider Ackermann) e di Willy Chavarria che, con quella che la scorsa stagione sembrava essere una prima prova, si prepara ora a un nuovo show d’Oltralpe per celebrare i dieci anni del suo marchio omonimo.

“Rispetto a Londra, New York ha problemi diversi: non ha designer di grande rilievo. L’unico che oggi conta davvero è Willy Chavarria, che infatti ha finito per sfilare a Parigi. Perché Parigi è dove si concentra tutto: è lì che i buyer comprano a fine mese. È il momento strategico. Per un brand, essere lì è una questione di sopravvivenza”.

Futuri incerti

Ma se il match sembra giocarsi solo tra Milano e Parigi, con una metafora calcistica si potrebbe dire che a vincere, al momento, è la squadra francese, con un punteggio di tre a uno. Sì, perché, calendari alla mano, nella Ville Lumière la Fédération de la Haute Couture et de la Mode riesce a far funzionare perfettamente (e spesso a estendere, inglobando sempre più brand in kermesse da 9-10 giorni) le settimane della donna, dell’uomo e dell’alta moda, e soprattutto a sostenere i giovani talenti. Nel frattempo, a Milano l’uomo continua a perdere terreno sulla donna – che, comunque, da una stagione ha guadagnato un giorno di presentazioni in più. E se a metà giugno il capoluogo lombardo ospiterà solo 15 show, dopo una settimana piuttosto sottotono a gennaio di quest’anno, nella capitale francese le sfilate saranno ben 40.

“Oggi i brand razionalizzano: fanno una sola sfilata e tolgono l’uomo. È inevitabile. Il co-ed era figlio dei primi anni 2000, quando c’erano più soldi e più spinta creativa. È una scelta dettata da necessità pratiche”. Certo, anche in questo caso non si tratta appunto di un problema delle singole istituzioni, quanto piuttosto della storica difficoltà italiana nel fare sistema – istituzioni, grandi brand, giovani designer e persino stampa di settore – e nel garantire un sostegno costante alle nuove leve. E, più banalmente, nel non riuscire a superare i limiti del formato co-ed, che durante la manifestazione dedicata alle collezioni femminili alimenta un calendario serratissimo e impraticabile. Quella del ‘giorno in più’, si è però rivelata per ora un’aggiunta che non rallenta la corsa che stampa e buyer devono fare per riuscire a vedere le nuove proposte di grandi maison, giovani creativi e investitori. “Parigi riesce anche a dare un ‘criterio geografico’ – riflette  Matarrese –. A Milano fare ricerca è molto difficile, a causa dei tantissimi appuntamenti sia buyer che stampa non riescono a seguire il flusso”.

Con il fashion month ai blocchi di partenza, rimane dunque il quesito sul futuro di una moda sempre più ‘Parigi-centrica’ e sulla crisi della capitale britannica, a cui si affianca l’incertezza dell’uomo di Milano. Perché, in un sistema che sembra orientarsi sempre più verso il consolidamento, la scomparsa (seppur temporanea) di Londra dal calendario globale è un segnale d’allarme che non può essere ignorato.

“Londra ci ha regalato visioni radicali, capaci di sfidare il potere. Alexander McQueen e Vivienne Westwood non sarebbero potuti nascere altrove. Però le politiche attuali non sembrano cambiare direzione, pagandone il prezzo – conclude Matarrese –. Il British Fashion Council sta cercando di reagire, anche con nuovi assetti, ma al momento l’unica via è quella della collaborazione con Parigi. Una scelta di umiltà che da noi non credo sarebbe accettata. Ma forse, ad oggi, è l’unica strategia sensata”.

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Redazione Redazione Eventi e News