La strage di Sydney e il rischio della banalizzazione del male

Dicembre 17, 2025 - 15:07
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La strage di Sydney e il rischio della banalizzazione del male

Le polemiche sulle responsabilità del governo australiano nell’alimentare la strage di Sydney, a quanto risulta dalle indagini opera di due militanti dell’Isis con tanto di bandiera nera nell’auto, somigliano a tutte le polemiche del genere, di questi tempi: uno scivolosissimo incrocio in cui vanno a scontrarsi opposte strumentalizzazioni, ipocrisie e pregiudizi.

La strumentalità delle accuse lanciate il giorno stesso della strage da Benjamin Netanyahu, secondo il quale l’attentato sarebbe la conseguenza del clima creato dalla decisione del governo australiano di riconoscere lo stato palestinese – e non, semmai, dalle immagini dei tremendi massacri compiuti dall’esercito israeliano a Gaza – appare talmente evidente da rendere superflua ogni argomentazione (se non la vedete da soli, andate da un oculista).

Ma non è meno evidente, ed è ben più mostruosa, la strumentalizzazione opposta, che nei massacri di Gaza trova la giustificazione della strage di Bondi Beach, e di qualunque altra atrocità commessa contro gli ebrei. La stessa logica che tempo fa portò Francesca Albanese, tra gli applausi dei suoi sostenitori, a intimare al sindaco di Reggio Emilia di non ripetere più che auspicava la liberazione degli ostaggi israeliani.

Sul Corriere della sera Antonio Polito scrive oggi che la strage di Bondi Beach è una vera e propria lezione sull’antisemitismo: «Se un tempo tutti gli ebrei furono considerati colpevoli di “deicidio”, oggi tutti gli ebrei sono considerati colpevoli del “genocidio”. Li si può dunque a buona ragione cacciare dai ristoranti o aggredire per strada, anche se sono cittadini italiani, francesi o tedeschi. Oppure ucciderli su una spiaggia, se sono cittadini australiani».

Polito chiarisce subito di non pensare affatto che «l’antisionismo non abbia diritto di esprimere le sue ragioni, né che si manifesti per forza in forme violente». Tutt’altro, aggiunge, spesso «si mantiene perfettamente all’interno del “free speech” e della critica allo Stato di Israele». Poi però se la prende con il Pd che ha definito un’iniziativa personale il disegno di legge di Graziano Delrio contro l’antisemitismo, che adottava la definizione del fenomeno data dall’International Holocaust Remembrance Alliance.

Ma la principale perplessità emersa nel Pd sul ddl Delrio riguarda proprio il rischio di travalicare di molto i confini del «free speech», trasformando in reato qualunque critica a Israele (sì, è esattamente la polemica cui assistiamo regolarmente sui discorsi d’odio, specialmente online, tra destra e sinistra, ma a parti rovesciate).

Tra gli esempi di antisemitismo citati dall’Ihra a illustrazione della sua definizione, per capirci, c’è il seguente comportamento: «Applicare due pesi e due misure nei confronti di Israele richiedendo un comportamento non atteso da o non richiesto a nessun altro stato democratico». Ma con un criterio del genere è facilissimo bollare come antisemitismo qualsiasi critica a Israele: basta trovare un altro paese che in qualunque angolo del mondo, nel corso di tutta la storia dell’umanità, abbia fatto qualcosa di simile, denunciare la disparità di trattamento, e il gioco è fatto.

Un altro esempio di antisemitismo, secondo l’Ihra, è il seguente: «Fare paragoni tra la politica israeliana contemporanea e quella dei nazisti». Una deduzione che personalmente non giudico affatto infondata, ma che non penso possa trovare spazio nella definizione di un reato, se non vogliamo mettere in galera tutti quelli che oggi parlano di «genocidio» in Palestina, con evidente e spesso esplicito riferimento ai nazisti. È un paragone ripugnante, che è giusto stigmatizzare, come fa l’Ihra, ma che troverei problematico, oggi, trasformare in reato, non foss’altro perché dovremmo sbattere in galera mezzo mondo.

L’antisemitismo, purtroppo, esiste da sempre, e non è stato certo Netanyahu a inventarlo. Per quanto i massacri di Gaza e la politica di violenza e sopraffazione sistematica incoraggiata dal suo governo in Cisgiordania costituiscano una formidabile campagna promozionale per ogni forma di odio contro gli ebrei, è evidente che la diffusione dell’antisemitismo nel mondo non dipende da lui.

La responsabilità di Netanyahu è però quella di avere enormemente indebolito gli anticorpi che almeno nelle società occidentali avevamo sviluppato, dopo gli orrori della Seconda guerra mondiale e dell’Olocausto. E il modo in cui un tema così delicato è finito ostaggio di opposte strumentalizzazioni, campagne di propaganda e di demonizzazione dell’avversario, anche nel nostro paese, testimonia quanto quegli anticorpi siano ormai inefficaci, e gli enormi pericoli della banalizzazione del male.

Questo è un estratto di “La Linea” la newsletter de Linkiesta curata da Francesco Cundari per orientarsi nel gran guazzabuglio della politica e della vita, tutte le mattine – dal lunedì al venerdì – alle sette. Più o meno. Qui per iscriversi.

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