L’inutile liturgia dello sciopero della Cgil, che non sposta una virgola

Lo sciopero generale è inutile. Purtroppo, forse. Molti molti anni fa ci cadevano i governi. Per «scongiurare lo sciopero generale» – si diceva così – c’erano ministri democristiani che facevano le tre di notte al tavolo con i sindacati per trovare mediazioni che appunto consentissero di revocarlo. E se lo sciopero generale si faceva, era una giornata specialissima: tutto chiuso, da Mirafiori fino al benzinaio sotto casa.
Erano quei giorni in bianco e nero – nessuno ironizzava sul fatto che fossero venerdì o simili amenità – in cui l’Italia si fermava come in un lutto nazionale: lo si osservava e basta. La gente rinunciava a una giornata di stipendio perché sentiva sulla pelle che era giusto, non perché lo aveva letto sui social. Ognuno prendeva le misure di una giornata particolare, senza servizi, senza niente, ma gli italiani avevano ancora il senso pratico della vita, memoria di ben altre privazioni e difficoltà.
I sindacati all’epoca erano i sindacati: corpi sociali, collettività di persone. Le grandi manifestazioni, i comizi torrenziali dei capi sindacali, la voce tonante di Luciano Lama, quella arrochita di Pierre Carniti, piazze piene di operai avanti con gli anni ma pure tanti giovani. Oggi le manifestazioni bene o male ci sono ancora, pure i comizi (ma che pena vedere Tomaso Montanari arringare le folle contro «il governo fascista» come fosse in uno studio di La7: d’altronde se Atreju invita Mara Venier, la Cgil chiama Montanari, tutto torna).
E la domanda è triste: a che serve, lo sciopero generale? Inutile star lì a misurare le percentuali di adesione allo sciopero nei vari comparti: l’impressione è che sia stato un giorno come un altro, con i soliti problemi nei trasporti (e la gente è stufa, tra i treni di Matteo Salvini e gli autobus di Maurizio Landini, di questo andazzo).
Tutti sanno, a partire dal segretario della Cgil, che dopo lo sciopero di ieri la legge di bilancio non cambierà di una virgola. Lo sa Elly Schlein, lo sa Nicola Fratoianni, lo sa Giuseppe Conte, che poi è quello a cui queste cose interessano di meno. Il fatto che non sia ci sia stato, non c’è e non ci sarà un “tavolo” ove concertare le misure economiche è colpa del governo e della sua cultura autoreferenziale; ma è anche, piaccia o no, un segno del cambiamento del tempo. E spaccare il sindacato non è una mossa intelligente. Per cui, lo sciopero generale ha chiuso il suo secolare cerchio, da momento rivoluzionario alla Georges Sorel a inutile liturgia della Cgil (persino i compagni della Uil se ne sono resi conto).
Serve a Maurizio Landini, per occupare uno spazio politico e mediatico: le due cose per lui sono sempre state complementari. Infatti il tutto come al solito diventa un fatterello televisivo, un’occasione per finire nei telegiornali, ormai terzo o quarto titolo, dopo il cataclisma in Asia o il giallo della ragazza sparita. Ma evidentemente questo basta e avanza, a una Cgil che affoga nelle contraddizioni di questo tempo, e che non vuole rendersi conto che il drago dello sciopero generale non butta più fuoco.
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