Sono entrata in carcere per parlare di solidarietà e la solidarietà le donne di Rebibbia l’hanno spiegata a me

Dicembre 18, 2025 - 04:10
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Sono entrata in carcere per parlare di solidarietà e la solidarietà le donne di Rebibbia l’hanno spiegata a me

Io quei 30 occhi non me li dimenticherò mai. La rassegnazione, la rabbia, la fame di sapere: esprimono tutto con un’intensità così forte che ti si appiccica addosso e non se ne va più.

È questo il mio pensiero appena il portone blindato si chiude dietro di me e torno fuori, sotto la pioggia. Sulla palazzina alla mia sinistra, dove si vede qualche panno steso tra le sbarre delle finestre, c’è un gabbiano: forse è lo stesso che ho visto al mio ingresso, si gode il panorama e il silenzio da lassù. Gli sembrerà la sua “oasi felice” questo posto, rispetto al caos di Roma, ancor più frenetico in questi giorni prenatalizi. E invece questo luogo non è né un’oasi né è felice: è la casa circondariale femminile di Rebibbia “Germana Stefanini”.

Io, invece, oggi sono felice. Sono venuta a parlare a quei 30 occhi e a dialogare con loro. Qualche settimana fa, l’associazione Antigone mi ha telefonato per chiedermi se, in quanto giornalista che per VITA mi occupo molto di carcere, avessi voglia di tenere una lezione in carcere, organizzata nell’ambito di “Nessuno escluso”, programma nazionale volto a sensibilizzare la comunità penitenziaria intorno alla cultura giuridica e costituzionale, a cura del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria – Dap, della casa editrice Giuffrè Francis Lefebvre e dell’associazione Antigone. Non ci ho messo più di qualche secondo ad accettare l’invito.   

Sono entrata nell’istituto insieme ad Antonio Delfino, direttore Relazioni esterne e istituzionali di Lefebvre Giuffrè, Irene Simoncini, pubblic affairs di Lefebvre Giuffrè e Silvia Caravita, volontaria di Antigone. Ad accompagnarci, Sabrina Maschietto, responsabile Area educativa casa circondariale femminile di Rebibbia. Attraverso un lungo corridoio. Incontriamo alcune detenute che stanno eseguendo lavori di manutenzione ordinaria e, dopo aver passato cinque porte blindate, arriviamo nella piccola biblioteca dove si svolge il nostro incontro.

Qualcosa di diverso

Per il programma “Nessuno escluso”, la casa editrice mette a disposizione le proprie risorse culturali, autoriali e editoriali all’interno degli istituti penitenziari italiani per favorire l’interazione sociale, lo sviluppo culturale e umano. Alcune delle ragazze e donne sono già arrivate, altre entrano ed iniziamo a salutarci. La più giovane non ha più di 25 anni, la più anziana supera i 70 anni. Questo è l’ultimo di cinque appuntamenti in programma a Rebibbia, alcune hanno già partecipato ad altri incontri, per altre è la prima volta. Prendono posto sulle sedie sistemate a ferro di cavallo, davanti a me. Sono in assoluto silenzio, sono impazienti di iniziare, ci scambiamo sorrisi. Una di loro mi dice: «Oggi facciamo qualcosa di diverso e di interessante».

«Ognuna deve pensare a se stessa»

L’argomento che ho il compito di presentare ed approfondire è la solidarietà. «Non è una lezione, ma un dialogo, una chiacchierata», dico subito loro. Mi emoziono appena prendo la parola, io che scrivo di comunicazione sociale da tanti anni e che seguo il tema carcere per VITA da un bel po’, considero un onore che qualcuno abbia pensato a me per quest’occasione e un privilegio poter dialogare con queste donne. È bello vederle così affamate di sapere davanti a me. Anche chi all’inizio ha un’aria svogliata e un po’ prevenuta, poi si apre e dice la sua.

Mentre parlo di comunità, volontariato, Terzo settore, Costituzione qualcuna prende appunti, alcune annuiscono, altre fanno di no con la testa. E sono questi no che più mi incuriosiscono, ovviamente. L’avevo messo in conto che parlare di solidarietà in carcere non sarebbe stato semplice. «Qui in carcere non c’è comunità. Ognuna deve pensare a se stessa», dice per esempio Debora (questo, come tutti gli altri, è un nome di fantasia). Ha capelli biondi lunghi, tanti tatuaggi che spuntano dalla maglia bianca e un’espressione sul viso che sembra perennemente arrabbiata con la vita ma che, durante l’ora e mezza passata insieme, un paio di volte si ammorbidisce in un sorriso.

La solidarietà in carcere: è possibile o no?

«Non è vero, con qualche compagna si riesce a essere solidali. Ma le persone di cui ci si può fidare, qui dentro, si contano sulle dita di una mano», ribatte timidamente Teresa, donna di mezza età, capelli lunghi, neri come i suoi occhiali. Sofia si muove in continuazione nella sua felpa di pile fucsia, è la più loquace. Racconta che è stata ricoverata in ospedale e operata lo scorso febbraio, dopo un incidente avvenuto in carcere: «Al mio ritorno in istituto ho sentito la solidarietà delle mie compagne, che piangevano per la contentezza di rivedermi, mi chiedevano tutte come stavo e se avessi bisogno di qualcosa. È stato emozionante». E aggiunge: «Tra noi donne è più difficile essere solidali rispetto agli uomini. Io ho il mio fidanzato al carcere maschile di Rebibbia, loro sono più uniti, forse perché noi donne siamo più str…».

Nella foto, a sinistra Antonio Delfino, direttore Relazioni esterne e istituzionali di Lefebvre Giuffrè, al centro Ilaria Dioguardi, giornalista di VITA, a destra seduta Sabrina Maschietto, responsabile Area educativa casa circondariale femminile di Rebibbia

«In carcere la solidarietà viene scambiata per cogl…», dice Rita, la più anziana del gruppo. Lei non si è persa neanche uno dei cinque incontri del progetto ed è molto contenta di apprendere cose nuove e di confrontarsi. «Io me ne frego se la solidarietà viene scambiata per altro, se voglio essere solidale con qualche mia compagna lo sono», dice Tania.

Prende la parola Sharon, trentenne con una coda di cavallo bionda, gonna lunga e maglia nera, due grandi orecchini a cerchio, che tra le lacrime racconta: «Nel tempo del Covid ho sentito la solidarietà di tutte le persone in carcere, dagli operatori agli agenti alle altre donne. Ci siamo aiutati tanto a vicenda, è stato un periodo bruttissimo ma nello stesso tempo eravamo uniti come non lo siamo mai stati».

Qualcuna deve uscire per un colloquio, una telefonata o per andare a lavorare. «Ho tre pantaloni da cucire», dice Tania. «Devo andare a lavare e stendere le lenzuola, sono la bella lavanderina di Rebibbia», dice Sofia.

La “polverina magica” delle fiabe

«Io sto qui da poco, è la prima volta che entro in carcere. Fuori ho fatto volontariato, qui ho studiato per fare accoglienza alle donne che entrano. Ora faccio questo, penso che si debba essere solidali per poterlo fare», dice Anita. «Il senso di comunità e di solidarietà è difficile portarli in carcere. La loro base è la Costituzione, ma se noi siamo qui è perché abbiamo fatto qualcosa di illegale. Chi viene da fuori non può capire davvero cosa significhi vivere insieme qui dentro, in un posto costretto. Più che di volontariato parlerei di volontà: ci vuole la volontà di dare una mano, nella vita di tutti i giorni», dice Rula, un fiume di parole dalla carnagione olivastra, una fascia a fiori in testa. E continua: «Le storie che voi giornali raccontate, le storie di chi ce l’ha fatta una volta uscito dal carcere… sono favole, non sono la realtà».

Le spiego che su VITA non scriviamo favole ma storie vere, e che sono una piccola percentuale le interviste sulle storie di chi ce l’ha fatta dopo la detenzione rispetto agli articoli che scriviamo sui problemi e le difficoltà del carcere. Ma le spiego anche che comprendo il suo punto di vista, spesso leggo anch’io storie (troppo) romanzate che riguardano chi è uscito dal carcere, che alimentano quello che arriva loro: una comunicazione che distorce la realtà e le mette sopra la “polverina magica” delle fiabe. «Ogni storia è a sé, se una persona è stata in carcere senza mai lavorare l’ha vissuto tanto, se ha sempre lavorato tante ore al giorno l’ha vissuto molto meno e in un altro modo. Ognuna di noi vive il carcere in maniera diversa».

Le parole usate fuori hanno un altro significato dentro

L’ultima a prendere la parola è Silvia, volontaria di Antigone, che un paio di volte al mese viene a fare sportello di ascolto. «Il nostro compito è anche rendere più vivibile l’ambiente carcerario. Le parole usate fuori hanno un altro significato dentro. Per poter essere veramente solidali bisogna sentirsi liberi dentro».

Con Silvia ho fatto un tragitto insieme a piedi, sotto la pioggia, dopo essere uscite. Da tanti anni viene in carcere: «Queste persone hanno più di tutto bisogno di essere ascoltate. Il sentimento più forte che si prova quando si parla con loro è l’impotenza».

«Qua dentro l’ascolto è la cosa più importante»

Alla fine dell’incontro, dopo lacrime e sorrisi, ci stringiamo le mani, mi ringraziano e io ringrazio loro, ci auguriamo buon Natale. E quei 30 occhi mi esprimono gratitudine perché «qua dentro l’ascolto è la cosa più importante», mi dice Rita, mentre mi chiede se possono avere un mio indirizzo mail. Vorrebbero rimanere (per come è possibile) in contatto con me. E io ne sarei felice.

Foto dalla casa editrice Lefebvre Giuffrè, tranne la foto dell’esterno del carcere che è dell’autrice

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