Chi è Robert Parker e perché siamo pronti a superare la sua visione enologica, persino a Bordeaux

Novembre 7, 2025 - 18:00
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Chi è Robert Parker e perché siamo pronti a superare la sua visione enologica, persino a Bordeaux

Nel 1967 un giovane avvocato americano di Baltimora scopre il vino durante un soggiorno in Francia. Quel ragazzo è Robert M. Parker Jr., che abbandonerà la toga per dedicarsi alle note di degustazione e diventerà, secondo molti, «il critico di vino più influente di tutti i tempi».
Attraverso la rivista The Wine Advocate, nata nel 1978 come “The Baltimore-Washington Wine Advocate”, Parker ha introdotto il sistema di valutazione da 50 a 100 punti, con cui ha contribuito a ridefinire non solo il modo di scrivere di vino, ma anche quello di produrlo e commercializzarlo. Parker non è stato semplicemente un recensore: la sua parola pesava sul mercato, sui prezzi, sulle strategie di produzione. Le sue valutazioni dei Bordeaux 1982 fecero scuola.

Il suo gusto era chiaro: vini ricchi, maturi, morbidi, potenti. E molte cantine – anche italiane – si sono “parkerizzate”, cercando di ottenere punteggi alti con stili più internazionali e concentrati. Per gli irriverenti di Punch drink Parker “è da tempo il cattivo preferito del mondo del vino: un critico che ha usato il suo potere senza precedenti per appiattire il vino in una massa alcolica e fruttata di monotonia. Ma la “parkerizzazione” è sempre stata molto più grande di un singolo uomo”. In Italia, questa corsa al punteggio ha portato visibilità e mercato, ma anche critiche per la perdita di autenticità. Parker stesso ha più volte negato di aver imposto uno stile unico, ma il termine Parkerization è diventato sinonimo di uniformità del gusto. Nel tempo, è stato accusato e additato in vario modo: “un buco a forma di dio al centro dell’universo del vino”, “la punta di lancia del movimento dei boomer” e anche giustificato: “ha aiutato una categoria di consumatori a razionalizzare le scelte che già desideravano fare”. Parker funzionava anche per questo: dare ai consumatori ciò che chiedono, stare su vini piacioni, ricchi, comprensibili, facili da intendere è una strada che premia sempre, anche e soprattutto a livello economico. Perché poi, come sempre parte tutto da qui: la parkerizzazione è dipesa moltissimo anche dagli interessi economici di un gruppo nutrito di investitori americani che avevano bisogno del loro paladino, strenuo difensore dei vini che facevano la differenza a livello economico.

Negli ultimi anni, però, le cose stanno cambiando: le nuove generazioni cercano vini più territoriali, leggeri, meno alcolici, più legati alla terra che al punteggio. È in questo scenario che si inserisce la novità firmata Bernard Magrez, storico produttore di Bordeaux e proprietario di Château Pape Clément, che ha appena lanciato il vino Bordeaux 12. Un blend di 60% Merlot e 40% Cabernet Sauvignon, pensato non per i critici ma per la Generazione Z, con una versione bianca di Sauvignon Blanc a un prezzo popolarissimo, tra i 5 e i 6 euro.

L’etichetta, firmata dall’artista street-art JonOne, è un simbolo di rottura e dichiarazione di intenti: “Un nuovo stile di Bordeaux fruttato, leggero e facile da bere”, per far capire a chiunque che anche a Bordeaux si possono bere vini semplici, immediati, abbordabili. «Si può chiamarlo un vino post-Parker» ha spiegato a Wein plus il consulente marketing Jean-Noël Kapferer, sottolineando come «la generazione Z voglia piacere immediato, non punteggi». Bordeaux 12 segna forse la fine dell’epoca del vino “da critico” e l’inizio di una nuova stagione: quella in cui il vino torna a parlare al pubblico e non solo agli esperti. Che sia un grande vecchio della tradizione più ancorata alla storia della nazione più tradizionalista del mondo sul fronte vino è una notizia nella notizia: e se la cantina fa il lancio volutamente provocatorio per una normale esigenza di marketing ben gestita, è altrettanto vero che intercetta la necessità di cambiare stile e di lanciare un nuovo modello di bevuta e di proposta: semplificata, abbordabile, economica, comprensibile. Un messaggio che anche l’Italia, dopo anni di “parkerizzazione”, sembra pronta a raccogliere. Perché la prossima rivoluzione del gusto non avrà 100 punti, ma mille sfumature di autenticità.

Le tappe della Parkerizzazione in Italia
Anni ’80 – L’arrivo dei punteggi
L’influenza di Robert Parker arriva in Italia attraverso le sue prime recensioni sui Bordeaux 1982, che stabiliscono un nuovo standard internazionale di giudizio. I produttori italiani più attenti ai mercati esteri iniziano a seguire i criteri di valutazione basati sull’intensità e sulla concentrazione.

Anni ’90 – L’Italia che conquista Parker
I “Supertuscan” diventano simbolo del nuovo corso: vini strutturati, maturati in barrique, che parlano un linguaggio internazionale. Etichette come Sassicaia, Ornellaia e Tignanello ottengono punteggi altissimi e l’Italia entra stabilmente nel radar di The Wine Advocate.

Anni 2000 – L’effetto imitazione
Molte cantine italiane iniziano a inseguire il “modello Parker”: vini più ricchi, più scuri, più legnosi, spesso pensati per ottenere 90+ punti. È l’epoca della “parkerizzazione”, che segna un boom di vendite ma anche una perdita di identità territoriale.

Anni 2010 – La reazione dei produttori
Nasce un movimento di ritorno alle origini: si riscoprono vitigni autoctoni, fermentazioni spontanee, uso moderato del legno. L’idea è di riappropriarsi del terroir e di sottrarsi alla logica del punteggio. Parker, nel frattempo, si ritira dalle recensioni di Bordeaux nel 2015.

Anni 2020 – L’eredità Parker e la svolta “post-Parker”
La critica si frammenta, i social sostituiscono le guide, i giovani consumatori cercano autenticità più che voti. Siamo pronti a una generazione di bevitori, critici ma soprattutto vini “post-Parker”.

La storia della parkerizzazione in Italia è, in fondo, quella di un intero mondo che ha imparato quanto il gusto possa essere influenzato dal giudizio – e quanto sia liberatorio tornare a bere con curiosità, non con un voto in mente.

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