L’imbecillimento della mente americana, e non solo americana

Per tutto il secolo scorso, l’Occidente ha vissuto nel terrore che ogni nuova invenzione potesse rincretinire le persone. Dalle lampadine al rock and roll, dai fumetti ai videogiochi, tutto era potenzialmente causa di instupidimento. Eppure, per decenni, i risultati dei test d’intelligenza hanno raccontato un’altra storia: i punteggi medi del quoziente intellettivo negli Stati Uniti, e in generale nei Paesi sviluppati, aumentava di circa tre punti ogni decennio. È il cosiddetto Effetto Flynn, una specie di aggiornamento software collettivo dovuto al progresso scientifico, tecnologico, sociale: migliore istruzione, lavori concettuali, mass media che spingevano al pensiero astratto. In buona sostanza, diventavamo tutti più abili a classificare, generalizzare, comprendere e risolvere problemi. I dati sembravano suggerire che niente, nemmeno l’invenzione dei chatbot per i compiti o l’inarrestabile ascesa dei podcast, avrebbe potuto fermare questa crescita cognitiva. Ma la storia riserva sempre delle sorprese.
Oggi il costante e graduale upgrade del cervello sembra essersi inceppato. Nel 2023, la ricercatrice Elizabeth Dworak ha deciso di controllare l’andamento dei test del quoziente intellettivo negli anni precedenti. Si aspettava l’ennesima conferma del copione. E invece: «Mi sentivo come in “Don’t Look Up”», ha detto. Il suo database, fatto di 394.378 test tra il 2006 e il 2018, mostra una discesa netta in tre categorie cruciali: i test psicometrici che misurano il pensiero logico-deduttivo, il riconoscimento di pattern in serie di lettere e numeri, e la risoluzione dei problemi attraverso il linguaggio.
«Il mondo è più stupido, e ce ne siamo accorti tutti», scrive Lane Brown sul New York Magazine, in una cover story molto ironica, ma dal retrogusto amaro. In copertina, sul nuovo numero della rivista, c’è una figura stilizzata, testa aperta e completamente vuota, come un salvadanaio rotto o un vaso mentale dimenticato al sole. In rosso, enorme e ingombrante, la scritta “The Stupiding of the American Mind”, citazione parodica del saggio “The Closing of the American Mind” di Allan Bloom. L’articolo si intitola “A Theory of Dumb” e lascia poco spazio all’immaginazione. Forse non stiamo diventando solo più superficiali, più distratti, più irritabili. Forse stiamo proprio diventando più stupidi – il perimetro di analisi in questo caso sono gli Stati Uniti, ma il discorso si può ampliare almeno all’Occidente e a tutti i Paesi sviluppati.
Brown prova a dare voce a un’ansia collettiva: quella sensazione strisciante che l’imbecillimento sia inevitabile. Lo studio di Dworak è un punto di partenza inquietante, ma è necessario fare un paio di distinguo. In primo luogo, i punteggi non sono diminuiti in tutte le categorie. In secondo luogo, i suoi dati provenivano da test online volontari, quindi, dice, «qualcuno potrebbe averlo fatto in autobus». Terzo e più importante, sottolinea Dworak, «non possiamo scientificamente dire che le persone stanno diventando più stupide, ma solo che i punteggi in queste categorie stanno diminuendo». Questo perché il QI è sempre stato un indicatore approssimativo dell’intelligenza, si potrebbe dire che è solo un riflesso di determinate abitudini mentali che vengono premiate o scoraggiate dalla società. Per questo i parametri vengono aggiornati e normalizzati ogni dieci anni circa e il suo significato è da sempre oggetto di dibattito tra gli statistici.
Però qualcosa c’è. Ad esempio negli Stati Uniti gli American College Testing – Act, un esame di ammissione universitaria richiesto da molte università – sono ai minimi da trent’anni, gli adolescenti sono incapaci di recuperare le competenze pre-pandemiche, e un quarto degli adulti americani ha capacità di lettura e comprensione del testo minime. E gli esempi potrebbero proseguire più o meno all’infinito. Un recente sondaggio mostra come il numero di americani che leggono per piacere sia diminuito del quaranta per cento negli ultimi due decenni.
Colpa, secondo il New York Magazine, di una cultura che premia routine, intrattenimento e abitudini che chiedono sempre meno ai nostri cervelli. «Forse non è tanto che il nostro software cognitivo sia stato declassato, quanto che abbiamo disattivato i nostri firewall», si legge nella cover story. «Tutti nel mondo sviluppato ora hanno accesso Airdrop alla mente di tutti gli altri. Se stiamo diventando più stupidi, è probabile che ci siamo resi così a vicenda».
La dimensione sociale e l’interazione con altre persone sono un aspetto chiave di questa storia. La specie umana ha sviluppato cervelli ottimizzati per gruppi di 20-50 individui. Ora ognuno di noi è esposto alle idee, alle emozioni e alle idiozie di centinaia di sconosciuti in ogni momento.
Non molto tempo fa, gli idioti tra noi erano liberi di pensare in silenzio, senza un modo semplice per condividerli. Nel peggiore dei casi, una persona si limitava a mettersi in imbarazzo di fronte alla propria famiglia o nello spogliatoio del calcetto o al bar. Le cattive idee restavano incagliate nella loro stessa palude.
Poi sono arrivati internet, i social e i telefoni sempre connessi. Questi non sono direttamente la causa dell’imbecillimento globale. Ma se ogni essere umano – più o meno – ha a disposizione l’equivalente di una propria tipografia, stazione radio e rete televisiva allora gli effetti possono essere nefasti. «Ora, anche chi non ha nulla di utile da dire può dire al mondo intero esattamente, o più spesso vagamente, cosa pensa», scrive Lane Brown nel suo articolo. «Per essere chiari, questa non è nostalgia di un’epoca in cui si sentivano meno voci. L’ampliamento del dialogo è stato, per certi versi, positivo: più prospettive, più responsabilità, ecc. Ma il rovescio della medaglia è che possiamo vedere l’intera distribuzione del pensiero umano in un unico scorrimento infinito, e a quanto pare la mediana è più bassa di quanto avremmo mai potuto immaginare. In teoria, questa è la democratizzazione dell’espressione. In pratica, sembra una lobotomia collettiva e molto partecipata».
La situazione si complica quando Brown introduce la parabola dell’informazione compressa: per sopravvivere nell’ecosistema digitale, ogni contenuto deve essere ridotto, distillato, semplificato. C’è sempre un podcaster che riassume l’aneddoto più interessante di un’intervista, un tiktoker che spiega il Medio Oriente in trenta secondi secondi, un tweet con lo screenshot della sintesi minima di un articolo lungo. Ogni passaggio distorce il significato originale, e banalizza il pensiero. Per paradosso – ma era inevitabile – è successo anche con lo stesso studio di Dworak: era stata molto cauta nel diffondere i risultati, poi un sito ne ha ripreso il tema centrale con un titolo clickbait e Tucker Carlson in tv ne ha stravolto ulteriormente il senso. La prima conseguenza è che Dworak si è trovata a difendersi da migliaia di critiche sui social.
I media protagonisti del secolo scorso – libri, film, tv, giornali – richiedevano la nostra attenzione e la nostra immaginazione, mostravano il mondo nella sua enorme complessità e richiedevano una certa dose di sforzo intellettuale. Mentre i media di oggi fanno quasi l’opposto: rimpiccioliscono la nostra visione del mondo, insistono sull’idea che tutto sia più semplice di quanto non sia in realtà.
A giugno, il Reuters Institute ha scritto che i social media sono diventati la principale fonte di informazione degli americani, superando per la prima volta i canali tradizionali, mentre TikTok è una fonte di notizie affidabile per il diciassette per cento delle persone in tutto il mondo. Come se non bastasse, spesso sono le istituzioni a inquinare il dibattito: l’attuale presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ne è una dimostrazione.
A perderci siamo tutti noi. «È difficile sfuggire a questo ciclo», scrive ancora il New York Magazine. «Anche i media tradizionali si sono uniti alla corsa per comprimere e rielaborare. C’è meno informazione e più commenti sull’informazione, e a volte solo commenti su quei commenti». È il decadimento dei giornali di cui, su queste pagine, ha parlato più e più volte Guia Soncini.
All’equazione bisognerebbe aggiungere anche l’impatto dei moderni modelli linguistici (Llm), cioè l’intelligenza artificiale come ChatGpt. Questa si nutre di contenuti che trova in rete, e se questi sono sempre più banali e piatti allora i modelli linguistici produrranno risposte sempre meno profonde e complesse. È un capitolo enorme e ha effetti potenzialmente ancora peggiori sulla decomposizione cerebrale di cui stiamo parlando.
Per questo, forse, l’unico approccio possibile è quello adottato da Lane Brown in coda al suo articolo. Una specie di resa all’imbecillimento collettivo. Una nuova consapevolezza. Non è solo che stiamo diventando più sciocchi, è che stiamo imparando a vivere in un ecosistema che non richiede, e forse non tollera, altro.
L'articolo L’imbecillimento della mente americana, e non solo americana proviene da Linkiesta.it.
Qual è la tua reazione?
Mi piace
0
Antipatico
0
Lo amo
0
Comico
0
Furioso
0
Triste
0
Wow
0




