Jovanotti e New York, anatomia di una fuga che diventa disco
Quando Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti ricostruisce come è finito a New York per lavorare a quello che sarebbe diventato Niuiorcherubini, non parla di svolte esistenziali né di ritorni simbolici. Collega tutto a un meccanismo che riconosce come parte del suo modo di reagire alle tensioni. Ricorda quando, da bambino, usciva di casa mentre i genitori litigavano: «Era il loro linguaggio, non il mio. Io cercavo un posto dove non sentire di dover intervenire». Oggi, in un presente che definisce «una specie di fine dei tempi costante», la dinamica non è diversa. Non si tratta di fuga in senso drammatico, ma della constatazione di un margine d’azione ridotto. Da qui prende forma la scelta di spostarsi.
New York entra in scena per ragioni funzionali, non mitologiche. È un luogo in cui può prenotare uno studio, trovare una band in poche ore, iniziare a suonare senza mediazioni. Jovanotti arriva con un’idea minima: registrare una versione salsa di Il corpo umano con musicisti di Spanish Harlem. Scrive su Instagram a Oscar Hernández, arrangiatore di riferimento della salsa newyorkese, che risponde con una disponibilità inattesa. A quel punto si mette in moto una macchina pratica: un paio di giorni di studio, musicisti che entrano ed escono, alcuni conosciuti, altri contattati sul momento. «L’intenzione era raccogliere materiale da una realtà che mi investiva e su cui non avevo alcun controllo».
La fase di lavoro prende consistenza in modo quasi automatico. Jovanotti racconta che i musicisti gli chiedevano come stesse e che lui, in quel contesto, si accorgeva di stare bene. Dopo mesi segnati dall’incidente in bicicletta, dalle operazioni e dalla fisioterapia, la ripetizione regolare delle azioni in studio — suonare, ascoltare, sistemare, riprendere — gli restituisce una continuità che mancava. Non c’è un punto di svolta: semplicemente, il materiale aumenta e tiene. Le incisioni vengono fatte su sedici piste analogiche, senza sovraincisioni né editing, con un’impostazione diretta che lascia intatto ciò che succede. Quando la quantità e la solidità di ciò che ha raccolto diventano evidenti, Lorenzo prende atto della situazione: «A un certo punto ho detto: questo è un disco».
La scrittura segue la stessa logica immediata. «I testi sono nati d’istinto. C’è malinconia, ma sempre in movimento», dice. Il risultato ha la fluidità di una jam più che la struttura di una canzone pop. La scelta del titolo, Niuiorcherubini, arriva dopo come dichiarato omaggio a DallAmeriCaruso di Lucio Dalla. Ma c’è qualcosa di più. Usare “Cherubini”, il suo cognome, accanto al nome della città significa spostare l’identità nel luogo della trasformazione. New York diventa un cognome; o viceversa. È il rito di passaggio implicito in tutto il progetto: lasciarsi modificare. Anche la data di uscita — 20 novembre — risponde all’andamento generale del progetto: decisa con poco anticipo, senza strategie elaborate.
Il disco porta con sé anche un commento implicito sul tempo storico. Jovanotti parla di un’epoca dominata da un sentimento di crisi continua. «Eravamo, come sempre, alla fine dei tempi», dice citando Borges, ma è lui a far sua la frase. La chiama “marketing della depressione”: quella sensazione diffusa che qualcosa stia crollando senza che riusciamo a nominarlo davvero. «Io appartengo a una generazione cresciuta con l’idea del progresso. Molte cose sono avvenute, ma insieme è salita l’ansia».
Il resto del progetto – le città attraversate, le date all’estero, il viaggio in bicicletta lungo la penisola – nasce come prosecuzione naturale di ciò che si è definito in studio. L’Arca di Loré, il formato con cui Cherubini porterà in giro i nuovi brani, non è una cornice concettuale né un dispositivo simbolico: è una struttura mobile che cambia configurazione a seconda dei luoghi, costruita per mantenere continuità al lavoro iniziato a New York
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