Israele. Mentre Gaza viene annientata, Netanyahu si salva dalla galera
di Giuseppe Gagliano –
Nelle prime ore del 30 giugno, la guerra ha bussato con forza alle porte di Jabalia e di Gaza City. Ancora una volta, sotto l’impulso di Tel Aviv, i residenti palestinesi del Nord dell’enclave sono stati costretti a lasciare le loro case. Ordini di evacuazione trasmessi via X, sms e volantini lanciati dal cielo: un rituale sinistro già visto, che si ripete con la regolarità della morte e del trauma.
L’esercito israeliano ha giustificato la decisione con motivazioni militari: neutralizzare Hamas e le sue infrastrutture nella zona, colpire i “terroristi”, allargare l’offensiva verso il centro urbano. Nel mirino, ancora una volta, il distretto di Jabalia e l’intero asse settentrionale della Striscia. Ma le Nazioni Unite lo ripetono: non esiste un luogo sicuro a Gaza. Neppure la “zona umanitaria” di Al-Mawasi, designata da Israele presso Khan Younis, garantisce protezione.
Le bombe piovono su case, tende, rifugi improvvisati. A Jabalia, sei persone sono morte all’alba sotto le macerie. A Khan Younis, nel Sud, un attacco su un accampamento ha ucciso cinque persone. Almeno altre dodici vittime si aggiungono in altre zone, portando a 23 i morti solo nella giornata del 29 giugno.
Nel frattempo si tenta l’ennesimo cessate-il-fuoco. Egitto e Qatar, sotto pressione americana, riavviano i negoziati. Ma mentre a Istanbul si discute di memorandum con l’Iran, a Gaza si fatica a distribuire il pane. Ospedali e organizzazioni locali denunciano centinaia di morti nelle ultime settimane durante la distribuzione degli aiuti, sotto il fuoco incrociato. La fame è diventata un campo di battaglia.
Hamas, da parte sua, ha fatto sapere di essere disposto a riprendere i colloqui, ma ribadisce: nessun accordo senza fine delle ostilità e ritiro delle forze israeliane. Venti ostaggi israeliani – presumibilmente ancora vivi – potrebbero essere liberati solo in cambio di una tregua stabile. Israele, invece, condiziona la pace alla completa smobilitazione militare di Hamas, un obiettivo che il movimento islamista respinge.
Nel caos Donald Trump prova a ritagliarsi un ruolo da pacificatore. Dopo settimane di silenzio, il presidente americano è tornato a chiedere su Truth Social “un accordo per Gaza” e la liberazione degli ostaggi. Ha parlato di possibile tregua entro la prossima settimana. Ma dietro le parole, resta la realtà di un conflitto che ha già provocato oltre 56.000 morti palestinesi e la devastazione sistematica dell’enclave costiera.
Il coinvolgimento di Trump va oltre la diplomazia: sabato ha attaccato pubblicamente i magistrati israeliani per il processo in corso contro Netanyahu. Secondo il tycoon, la giustizia starebbe “indebolendo il primo ministro” proprio mentre Israele ha bisogno di un leader forte nel confronto con Hamas e con l’Iran. Ha evocato una “follia giudiziaria” che danneggia gli interessi di Israele e ha suggerito che il sostegno statunitense non può essere disgiunto dalla sorte politica di Netanyahu.
Il premier israeliano, al centro di un processo per corruzione attivo dal 2020, ha ottenuto un rinvio della sua testimonianza – prevista per il 30 giugno – invocando motivi di sicurezza nazionale in seguito all’ultimo round di bombardamenti con Teheran. Ma l’opposizione lo accusa di sfruttare le crisi per bloccare la giustizia. Naama Lazimi lo ha detto chiaramente: “Netanyahu sta barattando il futuro di Israele con la sua impunità”. Karine Elharrar ha rincarato: “Agisce contro l’interesse pubblico”.
Le indiscrezioni si sommano: già a gennaio, secondo fonti israeliane, l’avvocato di Netanyahu, Amit Hadad, avrebbe cercato di negoziare un accordo con l’accusa attraverso l’ex presidente della Corte Suprema, Aharon Barak. L’idea: chiudere il Caso 1000 – quello dei regali di lusso – con un’ammissione limitata di colpevolezza. Ma il premier ha rifiutato ogni formula che comportasse l’interdizione dai pubblici uffici per “turpitudine morale”. Per Netanyahu, la battaglia non è solo politica: è personale, giudiziaria, esistenziale.
Così, mentre la popolazione civile di Gaza viene ancora una volta cacciata dalle proprie case, mentre la diplomazia si agita tra minacce, tregue parziali e ricatti incrociati, la tragedia si consuma: una guerra diventata teatro di sopravvivenze incrociate, personali e politiche, con i più deboli, come sempre, a pagare il prezzo più alto.
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