Mondo, la poesia di vivere gli altri come «il mio tu più esteso»

Dicembre 5, 2025 - 10:00
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Mondo, la poesia di vivere gli altri come «il mio tu più esteso»

Una volta ho conosciuto un signore che si chiamava Mondo. Era un signore di San Prospero, in provincia di Modena, che i volontari e le volontarie della Croce Blu accompagnavano in ospedale ogni giorno, la mattina molto presto. Si svegliavano all’alba, passavano a prendere Mondo, aspettavano che finisse la visita, lo accompagnavano al lavoro, tornavano nelle loro case, si toglievano la divisa e poi andavano a lavorare.

Impotenza è la cifra del nostro tempo, ma in Italia ci sono 4,7 milioni di persone che si spendono per gli altri.
Qual è il senso di questo impegno? Le risposte all’interno del magazine ‘‘Volontario, perché lo fai?

VITA magazine di novembre è dedicato al volontariato e a ciò che spinge 4,7 milioni di italiani a spendersi per gli altri. Che cosa muove oggi il nostro impegno? Quali sono i nuovi motori del volontariato? Accanto al racconto, abbiamo sfidato dieci firme in un’ambiziosa riscrittura del bellissimo e sempre attuale “Noi ci impegniamo” di don Primo Mazzolari. Dieci parole da cui ripartire, nella Giornata internazionale del Volontariato. Andrea Cardoni, autore, giornalista e volontario, ha scelto la parola mondoSe hai un abbonamento leggi subito Volontario, perché lo fai?  e grazie per il tuo sostegno. Se vuoi abbonarti puoi farlo a questo link.

Non ricordo se il signor Mondo dovesse fare la dialisi o qualche altra cura, quello che mi ricordo è che si chiamava Mondo e che era nato negli anni Trenta. I volontari raccontano che prima di entrare a fare la cura, Mondo offriva loro il caffè dalla macchinetta automatica dell’ospedale, per darsi una svegliata tutti insieme. E a Natale, Mondo faceva sempre un regalo ai volontari: un pacchetto di caffè, un panettone, delle caramelle. Anche quando non era Natale, qualcosa Mondo lo regalava sempre. Tutti i volontari della Croce Blu si ricordano del signor Mondo, anche perché Mondo è un nome bellissimo, che non si può dimenticare. Per loro, per i volontari e le volontarie, il mondo iniziava con il signor Mondo.

C’è una frase che Albert Camus si è appuntato nei suoi taccuini: «Non staccarsi mai dal mondo […] L’essenziale: non perdersi e non perdere ciò che di sé stessi dorme nel mondo». Lo scrisse nel maggio 1936, più o meno mentre nasceva il signor Mondo. Poco prima di uno dei più momenti brutti del mondo, un momento che ogni tanto qualcuno paragona al tempo che stiamo vivendo adesso. Questi due tempi hanno in comune il mondo e chi non si vuole staccare da esso. E forse, nel momento che stiamo vivendo noi oggi, nel momento della distrazione, nel momento in cui una notifica sembra portarci via da un mondo in riarmo, da un mondo che rischia di non prendersi più cura di tutti i Mondo che hanno bisogno di essere portati in ospedale per ricevere una cura, da un mondo che rischia di lasciare Mondo da solo, sono i volontari le prime persone a trovare un modo per reinterpretare il mondo. D’altronde anche l’etimo della parola “mondo” riporta a qualcosa di chiaro, pulito, visibile: il sostantivo mundus ricalcava il kósmos greco, che era appunto “ordine”. E il verbo mondare è sinonimo del pulire nel profondo.

Le dieci firme che su VITA hanno scritto dei nuovi “motori” del volontariato

Ildegard von Bingen diceva che «non possiamo vivere in un mondo non nostro, un mondo interpretato per noi dagli altri. Un mondo già interpretato non è casa». Questo sembra essere il modo di stare al mondo dei volontari: interpretare il mondo in prima persona, con una chiave di interpretazione diversa dal resto del mondo, un modo di fare e di stare al mondo a volte sconclusionato o disordinato, ma sempre implicato, radicato, colorato, attento. Spesso poco riconosciuto o dato per scontato, ma comunque stare nel mondo come volontario resta ciò che sta più vicino ai bisogni del mondo e delle persone che ne fanno parte. Cercando anche, spesso, di raccapezzarsi sul come risolvere bisogni e problemi nuovi.

Stare nel mondo come volontario resta ciò che sta più vicino ai bisogni del mondo e delle persone che ne fanno parte. Cercando anche, spesso, di raccapezzarsi su come risolvere bisogni e problemi nuovi Andrea Cardoni

Ecco: raccapezzarsi è forse la parola più vicina alle “cose” che fanno i volontari nel loro stare al mondo, spesso dovendo mettere insieme bisogni apparentemente inconciliabili: d’altronde è il mondo che lo chiede. Lo fanno ad esempio i volontari e le volontarie dell’Humanitas di Scandicci con il progetto HumaniCampus: un’associazione che si occupa di soccorso e Protezione civile che, data la crescente esigenza di alloggio da parte di studenti universitari fuori sede, mette a disposizione alcuni suoi appartamenti in cambio di ore di volontariato. Un altro modo di raccapezzarsi per non staccarsi dal mondo lo ha trovato la Fondazione Tetrabondi, che con il progetto Joelette – una sedia “fuoristrada” capace di superare barriere naturali e architettoniche – permette una visita guidata gratuita del Foro Romano a persone con disabilità e alle loro famiglie famiglie: un modo nuovo per costruire autodeterminazione e partecipazione attiva. «Anche questo per noi significa disegnare ogni giorno il mondo di tutti e di tutte», dicono i volontari e le volontarie dell’associazione. Di nuovo torna il mondo. 

Noi volontari ci impegniamo a raccapezzarci nei momenti del mondo. A non staccarci dal mondo, ma di viverlo come se fosse “il mio tu più esteso”

C’è una poesia di Nino Pedretti che recita così: «Il mondo ha bisogno di esser bello». Ma cosa possiamo fare, noi, per farlo bello? Vittorio Giacopini, in un prezioso libro intitolato Viaggiatori senza biglietto, suggerisce di fare continui esercizi di percezione. Per svolgerli c’è bisogno di mantenersi implicati. E per mantenersi implicati non si può ignorare il mondo, bisogna raccapezzarcisi: chi svegliandosi la mattina presto e accompagnando il signor Mondo in ospedale, chi dando alloggi a studenti e studentesse, chi aprendo uno sportello di ascolto e di prima consulenza per donne vittime di violenza. L’antropologo Paolo Pecere in Ecuador ha studiato un popolo che quando parla non usa mai il pronome “io”: per dire “io”, dice “il mio tu”. È una definizione che fa la rima con un verso di una poesia di Mariangela Gualtieri, che dice «Tu sei il mio tu più esteso». Ecco: noi volontari ci impegniamo a raccapezzarci nei momenti del mondo. A non staccarci dal mondo, scegliendo di non perdersi ma di raccapezzarcisi con continui esercizi di percezione. Di vivere cioè il mondo come se fosse “il mio tu più esteso”.

Andrea Cardoni (nella fotografia in apertura) è di Roma. È stato cooperante in Tanzania, è volontario e fa parte di un’associazione che si occupa di soccorso e protezione civile. È autore di documentari e podcast, radio e tv. Ha scritto “La parte migliore del paese” per Fandango, Tutti romani tutti romanisti per Marcos y Marcos, Tutto quello che non doveva succedere per Fandango Libri. Ha partecipato alla scrittura del Repertorio dei matti della città di Roma (Marcos Y Marcos) e Atlante dei corpi terrestri (CTRL). Ha scritto per Altreconomia, Vita.it, Redattore Sociale, Altrianimali, Minima et Moralia, QcodeMagazine, Qualcosa.

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