Speranza: squarciare il quotidiano con un’eutopia raggiungibile
Speranza. Speranza di un ponte che ci porti fuori dalle sabbie mobili dove ci siamo infilati, noi tutte e tutti, in ogni parte del mondo. Speranza nel linguaggio comune sta a significare l’aspettativa di circostanze positive nel proprio sentire. Ma ecco che subito sorgono le biforcazioni: attiva o passiva? Razionale o emotiva? Individuale o collettiva? La prima è una vera e propria dicotomia. Le altre due no, anzi riconciliarle è decisivo.
Impotenza è la cifra del nostro tempo, ma in Italia ci sono 4,7 milioni di persone che si spendono per gli altri.
Qual è il senso di questo impegno? Le risposte all’interno del magazine ‘‘Volontario, perché lo fai?”

VITA magazine di novembre è dedicato al volontariato e a ciò che spinge 4,7 milioni di italiani a spendersi per gli altri. Che cosa muove oggi il nostro impegno? Quali sono i nuovi motori del volontariato? Accanto al racconto, abbiamo sfidato dieci firme in un’ambiziosa riscrittura del bellissimo e sempre attuale “Noi ci impegniamo” di don Primo Mazzolari. Dieci parole da cui ripartire, nella Giornata internazionale del Volontariato. Lo statistico ed economista, già ministro della Coesione territoriale e co-coordinatore del Forum Disuguaglianze e Diversità Fabrizio Barca ha scelto la parola speranza. Se hai un abbonamento leggi subito Volontario, perché lo fai? e grazie per il tuo sostegno. Se vuoi abbonarti puoi farlo a questo link.
Nella prefazione del libro Le parole del Giubileo, condiviso da Caritas Italiana e dal Forum Disuguaglianze e Diversità (ForumDD), don Marco Pagniello parla della speranza come della «scintilla che accende processi di cambiamento». Per Jane Goodall, etologa e antropologa da poco mancata, punto di riferimento di giovani biologi di ogni parte, è «ciò che vorremmo accadesse ma dobbiamo essere preparati a lavorare perché accada». Dunque, speranza “attiva”. Ma non è detto. Nel racconto di Esiodo dove Pandora apre per curiosità la giara, la “speranza” è la sola cosa che resta dentro prima che la giara sia chiusa. Significa che all’umanità viene negato persino questo sentimento a cui aggrapparsi, oppure che gli viene almeno risparmiata l’illusione fonte di indifferenza e inerzia? Non si sa, visto che nella cultura greca la speranza poteva essere intesa nell’uno o nell’altro modo: come ciò che ci sottrae alla tentazione di inchinarci al “destino”; ovvero, come una cortina di fumo che scoraggia ogni azione.
Alla tesi che la speranza impedisce di affrontare il presente aderisce Nietzsche. Non è affatto detto che sia così, ma può ben avvenire. È il caso dell’attesa collettiva cieca e passiva del progresso, in primo luogo del “progresso tecnico”, come un percorso univocamente determinato: è il senso comune inoculato in tutte e tutti noi dalla cultura neoliberista quando batte e ribatte che non esiste alternativa. Mentre, invece, è palese che, agendo a monte, la tecnologia può essere indirizzata ad accrescere le ingiustizie, come mostra lo strapotere delle oligarchie digitali, o a ridurle, come avverrebbe se la conoscenza fosse bene comune. La speranza che la tecnologia digitale possa servire a ridurre le ingiustizie deve dunque essere “attiva”, una “scintilla per l’azione”.
E qui entra la ricomposizione di razionalità ed emozione. Servono entrambe. Serve, come scriveva Antonio Gramsci, il «pessimismo della ragione», per avere contezza delle cause dello “star male” – il controllo privato di pochi sulle piattaforme, nel caso digitale -, della previsione di come potrebbe peggiorare – il dominio di pochissimi sull’umanità -, delle cose da fare per realizzare la speranza – attuare il principio della conoscenza bene comune. E serve, aggiungeva sempre Gramsci, l’«ottimismo della volontà». Serve a respingere l’inerzia indotta dalla dimensione degli ostacoli e dallo squilibrio dei poteri. Per farlo serve un moto emotivo che sia ispirato dalla connessione che ognuno aspira ad avvertire, può riuscire ad avvertire, con qualcosa più grande di sé che aiuti a dare un senso alla vita, traducendosi in sentimenti morali. Quella connessione ha fonti e assume forme diverse per credenti e non credenti. Ma i sentimenti morali che ne scaturiscono sono quelli che consentono di superare la terza dicotomia, fra speranza individuale e collettiva.
È questa la speranza – attiva, a un tempo razionale ed emotiva, individuale e collettiva – quella che ci può strappare all’abisso. Per farlo serve avere la visione di un futuro migliore, di un’eutopia raggiungibile, articolata in tutte le dimensioni della vita umana Fabrizio Barca, co-coordinatore Forum Disuguaglianze e Diversità
È – quest’ultima – una dicotomia coltivata dalla cultura neoliberista, che ha stravolto il senso di speranza individuale e rimosso la speranza collettiva. Per speranza individuale possiamo intendere la convinzione di avere la capacità personale di costruire una strada per raggiungere il “meglio” e la motivazione a usarla. Ma quale “meglio”? Il meglio solo per me stesso o per chi ha i miei geni o anche per chiunque? La riduzione dell’essere umano a individuo egoista operata dal neoliberismo ci porta nella prima direzione. La consapevolezza che noi abbiamo dentro anche un senso di reciprocità che ci fa avvertire con dolore il dolore fisico e morale di altre persone – come oggi anche scientificamente provato – ci porta nella seconda direzione. E a questo punto nasce il ponte con la speranza collettiva, ossia con la convinzione che esista anche la capacità collettiva di costruire una strada per raggiungere il “meglio” di tutte le persone e la motivazione a usare tale capacità attraverso il confronto e il conflitto. Se questa speranza collettiva si misura con le persone, con ogni persona e non degenera nella visione metafisica di un “uomo nuovo” (come avvenuto nella storia) e se la speranza individuale include lo star meglio di chiunque, ecco che cade la dicotomia.

È questa la speranza – attiva, a un tempo razionale ed emotiva, individuale e collettiva – quella che ci può strappare all’abisso. Per farlo serve avere la visione di un futuro migliore, di un’eutopia raggiungibile, articolata in tutte le dimensioni della vita umana. E servono proposte concrete per realizzare quella visione – veri e propri obiettivi politici – e associazioni organizzate che costruiscano quelle proposte e si battano per realizzarle. Ma non basta. Come possono diffondersi quella visione e quelle proposte se il senso comune prevalente, gli occhiali con cui leggiamo le vicende che ci circondano, va nella direzione opposta e induce e coltiva la speranza individuale auto-centrica e l’irrisione della speranza collettiva? Se “pubblico” è inteso quale sinonimo di inefficiente e corrotto? E povero, di lavativo? Allora, bisogna “contendere” il senso comune e cambiarlo nella direzione descritta, per liberare l’indispensabile ottimismo della volontà.
Farlo non è facile e per ora non ci stiamo riuscendo. Non basta l’informazione buona, perché è sommersa da quella cattiva. Indagando su “come si cambia il senso comune”, abbiamo riscoperto ciò che nella storia è stata una chiave di rottura: le arti. Le arti, tutte le arti, essendo espressione diretta di quella connessione con “qualcosa più grande di sé”, hanno sempre svolto la funzione di aprire squarci nel nostro remissivo sguardo quotidiano, aprendoci a modi diversi di vedere le cose. Quando quegli squarci emotivi, temporanei e non strutturati, hanno trovato visione, proposte e organizzazione – insomma la politica – allora si è riaperta la partita. Si è avviato un cambiamento. Può tornare ad avvenire oggi.
Fabrizio Barca (nella foto in apertura di Mauro Scrobogna /LaPresse) è statistico ed economista, co-coordinatore del Forum Disuguaglianze e Diversità, già ministro della Coesione territoriale
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