Sorvegliare e punire, le uniche due parole nel vocabolario del carcere

Novembre 6, 2025 - 05:30
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Sorvegliare e punire, le uniche due parole nel vocabolario del carcere

Sono Fabio Falbo lo “scrivano di Rebibbia”, sono detenuto da circa vent’anni su una pena di anni 22 e mesi 9, potevo accedere al beneficio del permesso premio almeno 10 anni fa se si pensa che l’ergastolano può accedervi a 8 anni di pena in aggiunta alla liberazione anticipata di anni due. Sono laureato in giurisprudenza, per la seconda laurea in scienze politiche ho abbandonato gli studi a pochi esami dalla fine per protesta non violenta. Attualmente sono iscritto a scienze della comunicazione e mi occupo di diritti umani. Ho sempre rispettato la Costituzione anche quando chi la rappresenta ha smesso di farlo. Ho seguito ogni indicazione dello Stato, studio, lavoro, rispetto delle regole, legami familiari solidi, eppure, ciò che ricevo in cambio non è riconoscimento, ma sospetto, non è valorizzazione, ma delegittimazione.

La prima relazione di sintesi trattamentale l’ho avuta dopo circa 13 anni, anche quando l’ordinamento penitenziario prescrive che la relazione deve essere fatta nei primi 9 mesi e i vari aggiornamenti ogni sei mesi. La recente nota psicologica di settembre 2025 scritta da una psicologa che ho visto per soli 10 minuti circa, ha cambiato valore dalla precedente scritta a giugno 2025 da altro psicologo. Come si può scrivere una relazione con solo 10 minuti di conoscenza per una persona che vive da 20 anni in carcere? E come ci si può soffermare solo sulla professata innocenza senza spiegarne il motivo? Stessa cosa accade per la recente relazione dell’area trattamentale, con la differenza che la precedente scritta dalla stessa educatrice a giugno 2025 cambia a distanza di pochi mesi mostrando più il tono del comando che quello dell’osservazione. Il linguaggio usato: “il comportamento intramurario serbato dal detenuto continua ad essere caratterizzato dalla regolarità della condotta dal punto di vista disciplinare”.

Come si evince ha un tono burocratico, quasi militaresco, richiama più una logica di controllo che di rieducazione, riduce l’intera esperienza della persona detenuta a una dimensione normativa, ignorando aspetti relazionali, emotivi, progettuali, evolutivi. “Serbato” è un termine arcaico e impersonale che suggerisce un comportamento trattenuto, imposto, non vissuto. Nel documento, inoltre, si legge che: “il Falbo sta assumendo un atteggiamento che appare sempre più finalizzato unicamente su questioni di attualità penitenziaria e su vicende personali inerenti ai compagni di detenzione, rendendosi rappresentante delle loro necessità, più che sul proprio percorso detentivo”. Come se occuparsi degli altri fosse una colpa, come se la coscienza civica fosse una deviazione dal trattamento. “Tanto si sta traducendo nell’assunzione e nel sostenimento di posizioni (…) particolarmente orientate all’ottenimento di una certa visibilità, esacerbate dall’idea interiorizzata dal Falbo di essere vittima di un accanimento/complotto da parte degli organi preposti”. Si ricorda che “l’idea interiorizzata” è una formula che patologizza la denuncia. Non si confuta la mia posizione, la si traduce in sintomo. L’accanimento/complotto è un dato certo visto che senza spiegazione alcuna non sono potuto uscire dal reparto per circa quattro mesi, non posso più frequentare il corso sul programma radiofonico, mi è stata ritirata una maglietta con le scritte “i detenuti sono persone” e nel retro “lo scrivano di Rebibbia” senza ricevere il verbale attestante il ritiro e con questa motivazione: “le frasi scritte non sono idonee al luogo di detenzione”.

“L’uso della negazione totale degli agiti devianti in espiazione continua (…) evidenzia la non accessibilità al possibile percorso di autoanalisi (…) in presenza invece di un’assunzione di responsabilità circoscritta a dei trascorsi criminosi altri rispetto a quelli per i quali si trova in stato detentivo”. Qui si compie il salto logico più grave, si confonde la revisione critica con la confessione, in barba a quello che ha scritto la Corte costituzionale con la sentenza numero n. 253/2019, visto che né la collaborazione è elemento indispensabile, né l’ammissione di colpa lo deve essere per accedere al beneficio del permesso premio. La revisione critica è riflessione, non abiura. Nonostante tutto, la relazione riconosce la mia condotta regolare, la partecipazione attiva al trattamento, il lavoro come scrivano, il percorso universitario, i legami familiari e l’impegno civico. Ma tutto questo viene oscurato da un linguaggio che non rieduca, ma sorveglia, che non accompagna ma giudica, che non valorizza ma che punisce chi pensa. La chiusura del programma di trattamento è emblematica: “Si desume allo stato una sostanziale incapacità del detenuto di affrontare criticamente le condotte devianti (…) necessario (…) incoraggiare un percorso responsabile di messa in discussione del vissuto antigiuridico (…) anche attraverso la possibilità di sperimentare il detenuto all’esterno per il tramite dell’ammissione al beneficio premiale ex articolo 30 ter O.P.”.

Si propone un beneficio, ma lo si condiziona a una “messa in discussione” che non può avvenire se si continua a negare la mia posizione di innocente, è una contraddizione che mina la credibilità dell’intero sistema. Una proposta di linguaggio alternativo potrebbe essere stata: “La persona detenuta ha mantenuto una condotta rispettosa delle regole dell’istituto, dimostrando continuità nel percorso di responsabilizzazione e di apertura al dialogo con l’equipe trattamentale. Si evidenzia una partecipazione attiva alle attività proposte e una disponibilità al confronto costruttivo”. Questo tipo di linguaggio umanizza la persona detenuta, riconosce il valore del percorso, favorisce una lettura evolutiva e non statica della condotta. Ma nel sistema attuale, chi mantiene una posizione di innocenza viene penalizzato, mentre a volte chi si piega viene premiato. E ‘il rovesciamento della logica costituzionale.

Chi scrive queste relazioni non si rende conto che le parole sono pietre, le stesse che colpiscono chi ha scelto la via della legalità, della cultura, della non violenza. Pietre che non rispettano il dettato costituzionale e che costruiscono muri, non ponti. Io non ho il potere delle istituzioni, ma ho il potere della cultura, la stessa che metto a disposizione per i tanti che nonostante ricevano queste relazioni di sintesi non hanno gli strumenti per difendersi. E anche questo articolo, oltre ad essere la prova di ciò che succede in carcere, vi farà capire le angherie gratuite che diverse persone detenute devono subire nell’indifferenza totale. Salvis Iuribus.

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