Cittadinanza, il coraggio di creare nuove comunità

Maggio 29, 2025 - 18:00
 0
Cittadinanza, il coraggio di creare nuove comunità

Il tema della cittadinanza italiana per i migranti «dà non solo l’impressione di civiltà di un Paese, ma rappresenta anche un deciso tentativo di creare nuove comunità». A parlare è padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli, che nel 2024 ha seguito 24mila utenti (di cui 11mila a Roma), distribuendo oltre 65mia pasti nella mensa della Capitale e ospitando oltre mille persone in strutture d’accoglienza.

Padre Ripamonti, cosa pensa del quesito del referendum sulla cittadinanza dell’8 e 9 giugno, che chiede la riduzione da dieci a cinque anni degli anni di residenza legale in Italia richiesti per poter avanzare la domanda?

Procrastinare il riconoscimento della cittadinanza alle persone che da un certo numero di anni sono in Italia, hanno una casa e dei figli, quindi una certa stabilità, le lascia in una condizione in cui non si sentono pienamente cittadini italiani, ma continuamente stranieri nel Paese in cui vivono. Questo non aiuta i processi di integrazione, di partecipazione, di crescita della comunità, ma anche di pace sociale che auspichiamo in tutti i Paesi del mondo, che diventano sempre più multietnici e multi religiosi.

Lasciare le persone in una condizione in cui non si sentono pienamente cittadini italiani, ma stranieri nel Paese in cui vivono non aiuta i processi di integrazione, di partecipazione, di crescita della comunità, di pace sociale padre Camillo Ripamonti, presidente Centro Astalli

Far accedere alla cittadinanza italiana i migranti che dopo un certo numero di anni sono in Italia con i propri figli dà non solo l’impressione di civiltà di un Paese, ma è anche un tentativo di creare delle nuove comunità, in cui diversità culturali e religiose si integrano sotto la stessa bandiera. Noi ci occupiamo prevalentemente di rifugiati, il loro caso è un po’ emblematico: chi ha il permesso di soggiorno in protezione internazionale, come quello d’asilo, avrebbe diritto di fare richiesta della cittadinanza dopo cinque anni. Io sono al Centro Astalli da quasi 15 anni, non ho mai visto un rifugiato che, dopo cinque anni, possa richiedere la cittadinanza.

Perché?

Innanzitutto ci sono i tempi del riconoscimento iniziale, poi una volta fatta la domanda passano altri anni. Anche un rifugiato con un permesso di soggiorno per asilo, che avrebbe diritto alla cittadinanza dopo cinque anni, non riesce ad averla prima di 10-12 anni. Ridurre da 10 a cinque anni non farebbe che accorciare questi tempi reali, che sono molto di più di quelli scritti nella legge. Consideriamo che le persone sono soggette continuamente a spostamenti sul territorio nazionale o fuori dal Paese, quindi interrompono spesso la continuità della residenza dei 10 anni richiesta per l’ottenimento della cittadinanza: così spesso gli anni aumentano.

Foto Francesca Napoli/Centro Astalli

Ridurre questo tempo aiuterebbe a stabilizzare le persone e a fare in modo che possano ottenere il riconoscimento in tempi più brevi. E sarebbe importante anche perché ci aiuterebbe a riflettere, in modo non ideologico, su un tema che ci riguarderà sempre di più, negli anni a venire.

Legge ancora negli occhi dei rifugiati che incontra «la speranza di un futuro diverso e più giusto», come disse in un’intervista a Il Riformista?

Grazie al cielo le persone rifugiate, quanto meno di recente arrivo, continuano ad avere la speranza negli occhi, nonostante le difficoltà, gli ostacoli che sempre di più hanno sul loro cammino. Quando li vedo arrivare qui, questa speranza in un futuro diverso, migliore di quello che hanno lasciato nei loro Paesi, nei viaggi che li hanno portati in Italia e in Europa, continuo a vederla.

Certamente sono persone molto più provate di tempo fa, fanno più fatica nel corpo e nella mente a causa dei viaggi, delle situazioni molto estenuanti che hanno vissuto perché si sono fatte politiche sempre più restrittive e di dislocazione dei migranti (quando non di deportazione), di blocco, quindi di esclusione. Ma hanno la speranza di poter mettere in atto quello che è il desiderio nel cuore di tutti: di una vita felice, stabile, in pace, che possa guardare al futuro.

Foto Mirko D’Accurzio/Centro Astalli

Negli anni le politiche restrittive, anche del nostro Paese, i continui cambiamenti delle modalità di richiesta di permesso di soggiorno, la non serenità nell’affrontare i temi della cittadinanza e della migrazione, hanno creato una situazione di limbo di molte persone, che hanno permessi di soggiorno scaduti che non riescono a convertire, che non riescono a capire quali possibilità hanno o non vengono rimpatriati. Si è creato, negli anni, un aumento di persone che sono in una situazione di precarietà.

La speranza iniziale che i rifugiati avevano negli occhi si sta un po’ spegnendo perché vedono che da questa situazione burocratica, legislativa, sociale e ambientale non riescono ad uscire. Si trovano in un labirinto esistenziale che le imprigiona

La speranza iniziale che avevano negli occhi si sta un po’ spegnendo perché vedono che da questa situazione burocratica, legislativa, sociale e ambientale non riescono ad uscire. Si trovano quasi in un labirinto esistenziale che le imprigiona, rischiano di essere le più marginalizzate, quelle che vivono per strada e di espedienti perché, non potendo avere un lavoro e una situazione di regolarità, si concedono a lavori non regolari e cadono nelle maglie della criminalità. Quello che spesso si fa, attraverso i decreti di sicurezza, è di spostare queste persone che vivono in un “limbo” dai centri delle città: si rimuove il problema piuttosto che affrontarlo e risolverlo. Si fa una politica al rovescio.

Ci spieghi meglio.

Si dichiara che queste persone devono vivere nel loro Paese in modo libero, in pace, ma poi non si procede per dare sostegno effettivo, nei loro Paesi. Se partono, le si blocca prima di entrare, oppure arrivano da noi e le si lascia in un “limbo”. La politica seria dovrebbe tenere conto di tre passaggi.

Quali sono questi tre passaggi?

Il fatto che bisogna lavorare per creare le condizioni perché le persone non partano dai loro Paesi. Quindi, bisogna lavorare per la pace, per il disarmo, per una crescita e il riconoscimento dei diritti di quei Paesi da cui queste persone scappano. Poi, siccome non si garantisce il primo passaggio, alcune persone partono e, a quel punto, bisogna tutelarle: se le ostacoliamo nel viaggio non le dissuadiamo e, soprattutto, le persone che arriveranno saranno molto più vulnerate e ferite. Infine, una volta che arrivano, bisogna mettere in atto le politiche di integrazione.

Padre Camillo Ripamonti (Foto Francesca Napoli/Centro Astalli)

Per tornare al tema della cittadinanza, se noi la procrastiniamo e ci dilunghiamo, queste persone passano la loro in vita in situazioni di precarietà, non si integrano effettivamente nei Paesi in cui arrivano, mantengono i legami con i Paesi di provenienza. E il rischio di integralismo, che viene spesso ventilato, diventa effettivo, perché se noi facciamo mantenere il contatto con i Paesi di provenienza piuttosto che lavorare per integrazione reale nei Paesi di arrivo, non facciamo che alimentare questo pericolo.

Cosa dovrebbe fare una politica lungimirante?

È un argomento complesso, non esiste una ricetta unica. Bisognerebbe attuare un insieme di politiche lungimiranti, che devono uscire dalla propaganda e dalla semplificazione. Una politica lungimirante è una politica che esce dalla contrapposizione, che si siede al tavolo in un modo che guarda il futuro, che guarda gli interessi effettivi anche dei cittadini, non soltanto quelli economici e più immediati.

La mobilità nelle società sarà sempre maggiore, i cambiamenti climatici non faranno altro che spingere sempre di più gli spostamenti delle persone. Tra 10-20 anni il movimento migratorio sarà amplificato. Se si attuano soltanto delle politiche repressive di ostacolo, si rende più difficile lo spostamento e non si fa altro che “tirarsi la zappa sui piedi”. Anche perché l’Occidente sta invecchiando, c’è difficoltà a trovare le persone che lavorino, molti giovani si trasferiscono in altri Paesi dell’Occidente.

Un recente report di Amref Italia e dell’Osservatorio di Pavia evidenzia un calo drastico dell’attenzione della stampa italiana alle questioni legate al continente africano, meno 50% in un anno.

Se ne parla molto poco, l’opinione pubblica non è informata su alcune questioni quindi si disinteressa. Non essendoci l’interesse delle persone, la stampa ne parla ancora meno: è un circolo vizioso. Faccio un esempio: il conflitto in Sud Sudan. Pochissimi media parlano di questa catastrofe umanitaria, che ha milioni di sfollati. Bisogna tornare a parlare del Sud del mondo, non in maniera pietistica ma propositiva, con il riconoscimento di quelle potenzialità che gli stiamo sottraendo.

La nostra attenzione, anche nei vari piani che si fanno, è volta ad interessi economici o petroliferi, di materie prime o di terre rare, nei vari Paesi del continente africano e di altre zone del pianeta, soprattutto nel Sud del mondo. Dovremmo veramente ricominciare a parlarne, ma da pari, invitando al tavolo chi con dignità può esprimere i propri bisogni, le proprie necessità ed aspettative.

Foto Mirko D’Accurzio/Centro Astalli

È necessaria una narrazione che sottragga l’Africa, in particolare, a una visione neocoloniale. Va superato l’approccio di voler fornire aiuto, di pensare di conoscere i bisogni senza ascoltare. Non bisogna avere interessi secondari. Questo è il salto che la comunicazione, ma anche l’opinione pubblica, deve fare rispetto al Sud del mondo. Quando i ragazzi dell’Africa sentono parlare di “giovani africani” saltano sulla sedia perché ci sono tantissimi Stati e moltissime etnie all’interno di quegli Stati: noi abbiamo tirato una riga, abbiamo diviso popoli e etnie da una parte o da un’altra. È una realtà molto complessa, dar loro voce vuol dire rispettare la complessità e le potenzialità che hanno.

Le foto nell’articolo sono del Centro Astalli (crediti nelle didascalie). La foto in apertura è di Francesca Napoli

L'articolo Cittadinanza, il coraggio di creare nuove comunità proviene da Vita.it.

Qual è la tua reazione?

Mi piace Mi piace 0
Antipatico Antipatico 0
Lo amo Lo amo 0
Comico Comico 0
Furioso Furioso 0
Triste Triste 0
Wow Wow 0
Redazione Redazione Eventi e News