La pace a Gaza imposta con le armi e con la forza

La pace a Gaza è stata imposta con la forza micidiale e sanguinosa della guerra e col ricatto, con la pressione, del grande capitale internazionale, del mega business: questa è la lezione di vecchia realpolitik che viene da Sharm el-Sheik. Gli intellettuali che ci annunciano che la logica feroce del Novecento sta per essere superata, che sta emergendo e si sta imponendo sulla scena il ripudio della guerra dalle centinaia di migliaia di giovani che hanno manifestato contro Israele e a fianco dei Propal, come gli ottimi Alessandro Baricco e Michele Serra, dovranno ricredersi. Questa pace è stata imposta con le armi e con i dollari. Con cinica abilità tutta novecentesca.
Donald Trump e la migliore tradizione diplomatica degli Stati Uniti, con l’apporto non casuale di plurimiliardari come Jared Kushner e Steve Witkoff, hanno ottenuto un risultato storico: i Paesi arabi e la Turchia si sono fatti garanti di ben più della tregua a Gaza e, finalmente, della liberazione degli ostaggi israeliani. Si sono impegnati politicamente e anche militarmente a garantire che Hamas verrà disarmata e che non avrà più un ruolo nel futuro della Striscia. Di fatto si schierano da oggi per garantire la sicurezza di Israele, che da qui a qualche mese riconosceranno.
Questa è una rivoluzione copernicana, una svolta storica che rivoluziona il Medio Oriente. Ovviamente sarà un processo complesso, difficile, pieno di incognite, che vivrà dei contraccolpi, ma che smentirà i tanti profeti di sventura che nella sinistra italiana sono spiazzati, per primo il Pd di Elly Schlein che in Parlamento si è rifiutato di approvare il piano, astenendosi, e che ora denunciano l’indeterminazione voluta della road map decisa a Sharm el-Sheik.
Donald Trump ha ottenuto questo storico risultato agendo su due leve, tipiche della più ferrea e cinica logica del Novecento. Ha appoggiato innanzitutto e in pieno la guerra di Israele su sette fronti, uno dei quali è quello di Gaza, per feroce che sia stata. Poi ha rovesciato la perdente strategia irenica di Barack Obama e ha scatenato l’operazione Martello di Mezzanotte il 22 giugno scorso contro i siti nucleari dell’Iran con gli Stealth Northrop B2 e con i missili Tomahawk, terminando così con la guerra dei dodici giorni la distruzione dei siti nucleari iniziata dai bombardieri israeliani del 13 giugno.
Nel frattempo, in continuità con Joe Biden, ha fornito a Israele copertura politica e migliaia di bombe e missili con le quali lsraele ha colpito i gangli vitali di Hamas a Gaza (e di Hezbollah in Libano e degli Houti in Yemen). Distrutto, disgregato con la forza delle armi il Fronte della Resistenza capeggiato dall’Iran degli Ayatollah e dei Pasdaran, che aveva l’obiettivo di eliminare Israele dalla faccia della terra, Donald Trump in stretta alleanza con lo stato ebraico ha agito spregiudicatamente sul fronte dei grandi, enormi, interessi economici, dei movimenti di centinaia di miliardi di dollari.
Grazie alla collaudata, capillare, rete diplomatica americana, e alla rete di relazioni, di incroci di mega capitali che intrecciano l’economia americana con i Paesi sunniti del Golfo e con la Turchia, e anche grazie alla rete di relazioni, alle joint venture, intessute da Jared Kushner e Steve Witkoff, con l’aiuto del network di relazioni e di capitali intessuto in Medio Oriente da Tony Blair, il presidente americano ha costruito e definito un mega progetto economico che unisce e intreccia ancora di più l’economia americana con quella israeliana, dei Paesi del Golfo e della Turchia.
È questo il progetto di un enorme mercato comune in Medio Oriente tra Israele e i Paesi sunniti che metta in comune enormi capitali, infrastrutture, tecnologie, ricerca e capitale umano. Questa è la poderosa base economica, dí integrazione di mercato, degli Accordi di Abramo, che pone fine al secolare «rifiuto arabo di Israele» e lo ribalta in una poderosa integrazione delle economie che mira a costruire una «via del cotone» volutamente antagonista della «via della seta» cinese, che unirà, anche con enormi, nuove infrastrutture, il mercato dell’Europa, quello di Israele, quello dei paesi del Golfo, con quello dell’India e anche con quelli dei paesi asiatici, sino all’Indonesia e alle Tigri asiatiche. Abbandono totale, quindi, della pregiudiziale del «rispetto dei diritti dell’uomo» e delle «riforme democratiche» che hanno appesantito e intralciato i presidenti democratici americani, e anche George W. Bush.
Ed è stata una delle tante ragioni dell’assenza totale dell’Europa, ma non dell’Italia e della Germania, dal lavoro diplomatico americano che oggi ha conseguito un pieno successo. Su trentacinque Paesi che hanno firmato a Sharm el-Sheik il documento in 20 punti di Donald Trump, si contano poco più sulle dita di una mano i Paesi realmente democratici: la schiacciante maggioranza di quei Paesi è governata da autarchie spesso feroci nei quali le manifestazioni sono rigorosamente proibite. Questo anche per ricordare che supera il ridicolo chi da provinciale suonato sostiene, come la sinistra e il Pd, che le grandi manifestazioni per Gaza e le varie flottiglie hanno avuto un peso nel raggiungimento della pace. La maggioranza dei firmatari del piano di pace è solita affrontare le manifestazioni a suon di mitra.
La spregiudicata pressione economica esercitata dalla diplomazia americana e personalmente da Donald Trump ha agito dunque su due livelli, sui punti di debolezza e su quelli di forza economica del fronte sunnita. Punti di debolezza rappresentati dall’Egitto e dalla Turchia, le cui economie sono rispettivamente boccheggianti o in profonda crisi. L’Egitto di al Sisi, che è sull’orlo del disastro economico e che si è sempre rifiutato nettamente di occuparsi direttamente della crisi di Gaza, è stato così indotto, quasi costretto, a capovolgere la sua posizione e ad assumere il compito di dirigere il corpo armato inter arabo che si dovrà occupare da qui a qualche settimana di prendere il controllo militare di Gaza. Questo, in cambio di un sostegno economico più che sostanzioso da parte degli Stati Uniti e anche dei Paesi arabi. Anche la Turchia, in grave crisi economica, è stata costretta garbatamente ad abbandonare lo sfegatato appoggio ad Hamas di Tayyp Erdogan, in cambio di una sostanziosa contropartita economica e della agognata fornitura di una flotta di quaranta aerei F-35 e di quaranta F-16 Viper.
Gli Stati del Golfo che, invece, sono in floridissima situazione economica hanno avuto in cambio della loro adesione al piano di pace non solo le grandissime prospettive di sviluppo e di integrazione di mercato derivanti dagli Accordi di Abramo, ma anche contropartite concrete.
La fondamentale Arabia Saudita ha ribaltato la sua secolare ostilità nei confronti di Israele, innanzitutto perché il principe reggente Mohammed bin Salman (Mbs) ha capito che un accordo con lo Stato ebraico e la definizione di un mercato comune e di nuove, enormi, infrastrutture logistiche e di trasporto che sbocchino ad Haifa è indispensabile per il suo progetto Vision 2030. Dunque, Mbs progetta il superamento di un’economia saudita fondata solo sui petrodollari da estrazione dal sottosuolo e sul settore immobiliare per innescare uno sviluppo economico basato sulla produzione industriale tecnologica e sulla medicina avanzata – per cui gli è indispensabile il raccordo con Israele – sulla ricerca scientifica e sull’industria militare sulla quale Israele è all’avanguardia. Inoltre, Mbs ha ottenuto da Donald Trump le richieste forniture di tecnologia per il nucleare civile e massicci armamenti.
Diverse, invece, le ragioni che hanno spinto lo Sheik Tamim al Thani ad abbandonare il suo pluridecennale doppio gioco a favore di Hamas. Il suo Qatar ha infatti finalmente premuto con forza e velate minacce sulla dirigenza estera di Hamas – avrebbe potuto farlo perlomeno da due anni – solo perché Donald Trump l’ha messo di fronte a un bivio: deteriorare i rapporti economici con gli Usa continuando a sostenere sottobanco il movimento terrorista o imporre ad Hamas la liberazione immediata degli ostaggi in modo da otteenwre da Washington non solo la garanzia di una copertura militare totale di difesa, una sorta di articolo 5 della Nato, ma anche vantaggiosi ritorni economici.
Jared Kushner ha quindi svolto un ruolo fondamentale in queste complesse trattative in cui ruotano nuovi accordi industriali e incroci di capitali tra mega holding del valore di decine e decine di miliardi di dollari.
La road map così solennemente firmata a Sharm el Sheik da una platea di Stati solidamente allineati agli Stati Uniti, contraltare e antagonista della antioccidentale Organizzazione per la Cooperazione di Shangai capeggiata dalla Cina di Xi Jinping, prevede ora una complessa, difficile fase due.
Steve Witkoff si è così fermato al Cairo per definire, affiancato dal network diplomatico americano nel Golfo, la formazione del corpo militare inter arabo, a cui parteciperà probabilmente anche l’Indonesia, che avrà il compito di prendere il controllo armato della Striscia. Un passaggio delicato e complesso che prevede per il momento che si tolleri la presenza dei miliziani di Hamas con ruoli di polizia, come ha detto Donald Trump, per intessere una dura trattativa con la dirigenza militare di Gaza della stessa Hamas per un graduale disarmo, e quindi il passaggio a un controllo armato del territorio esercitato solo da militari egiziani e arabi e dalla milizia palestinese addestrata in Giordania e istruita, anche, da militari italiani.
Questo, non va dimenticato, mentre Hamas risponde a suon di mitragliatrici ai clan gazawi che hanno preso atto del suo storico, sanguinoso fallimento e cercano di prendere il controllo del territorio. Sono ventisette i morti palestinesi uccisi da palestinesi nel giorno della firma del progetto di pace. Di nuovo, un richiamo alla dura realtà dei fatti per le anime belle.
Indispensabile per questo scabroso ma fondamentale passaggio sarà dunque e di nuovo la pressione del Qatar e della Turchia. Se questo processo sarà eseguito, si passerà alla definizione del Board of Peace, presieduto da Donald Trump, coadiuvato da Tony Blair, che assumerà il comando politico e la gestione amministrativa di Gaza e di una sua ricostruzione che impegnerà non meno di 50 miliardi di dollari.
Sarà una road map che si svilupperà per anni, nel quale sono fortemente impegnati gli Emirati Arabi Uniti che già hanno siglato gli Accordi di Abramo e che mettono in campo l’unico leader palestinese affidabile per Israele, Mohammed Dahlan, nato a Gaza ed ex dirigente della sicurezza palestinese nella Striscia, fiero avversario del corrotto e impotente Abu Mazen.
Solo se questo complesso processo avrà successo, alla fine, si potrà prendere in esame la formazione di uno Stato palestinese. Chiederlo oggi, come fanno il Pd e l’opposizione in Italia, e come hanno fatto tanti Stati europei, è puro, astratto e pericoloso velleitarismo.
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