L’Arcivescovo: «Abbiamo da imparare dai cristiani di Terra Santa»
Monsignor Delpini nel villaggio beduino di Jahalin«Da questa testimonianza il cristianesimo lombardo potrà ricavare una specie di missione all’accoglienza». Lo sostiene l’Arcivescovo, monsignor Mario Delpini, tracciando un bilancio del pellegrinaggio dei Vescovi lombardi in Terra Santa, che si è svolto dal 27 al 30 ottobre.
Per i Vescovi lombardi in Terra Santa questi sono stati giorni di preghiera, di incontri, di solidarietà, di speranza. Questo è il senso complessivo del vostro pellegrinare?
L’intenzione originaria di questo pellegrinaggio è stata quella di venire a dire ai cristiani di Terra Santa la nostra vicinanza. Questo è stato riconosciuto e molto apprezzato. Come per dire: «Se voi venite qui, convincete anche altri a venire in pellegrinaggio, noi allora abbiamo una ragione per restare, nonostante le condizioni difficili in cui ci troviamo». Quindi la prima intenzione era quella di esprimere una vicinanza in un contesto di preghiera: i pellegrini non vengono solo a visitare, ad affrontare i problemi, ad aggiornarsi sulla situazione, ma a trovare in un luogo santo il motivo per santificarsi. Gli incontri sono stati molti e impegnativi. Perciò portiamo a casa un patrimonio di testimonianze, la gioia di vedere una dedizione senza risparmio e senza pentimento di persone che qui si dedicano ai poveri, alle varie necessità, testimonianze di passi di riconciliazione che anche dentro il mondo ebraico e musulmano sono tentati da uomini e donne di buona volontà.

Nei tanti incontri fatti ce n’è uno che l’ha colpita in particolare?
Ci sono stati due incontri che mi hanno particolarmente colpito. Uno è quello con un papà ebreo (la figlia di 14 anni uccisa in un attentato terroristico) e un papà musulmano (anche lui con una figlia di 10 anni uccisa da un soldato israeliano). Questi due padri, di fronte al trauma della morte di un figlio, hanno ciascuno per conto proprio considerato cosa dovevano fare. Reagendo all’istinto immediato della vendetta hanno invece pensato che dovevano cercare vie per rendere desiderabile continuare a vivere. Perciò sono diventati amici, hanno dato vita a un gruppo di parenti di persone morte nel conflitto israelo-palestinese. Questo è stato un incontro molto impressionante per dire che la guerra è una pazzia, la speranza è soltanto nel perdono e nella decisione di considerarsi semplicemente esseri umani.

Questo incontro in particolare ha dunque sollecitato una riflessione sulla situazione non solo dei cristiani in Terra Santa?
Mi è rimasta impressa l’espressione del papà della ragazza uccisa in un attentato: “Gli ebrei sono pazzi e sono pazzi perché hanno troppo sofferto. I palestinesi sono pazzi e sono pazzi perché hanno troppo sofferto”. Credo che questa sofferenza insostenibile sia una ragione per cui mettere insieme Israele, pace e fraternità sembra creare un’imbarazzante contraddizione. Perciò gli incontri che ci lasciano sconcertati invitano a guardare avanti e a domandarci: allora cosa succede? Ci sono quelli che dicono che qui non c’è mai stata pace e non ci sarà mai. Ci sono quelli che dicono che sono pieni di speranza, come il sindaco di Betlemme, perché vede risorse, possibilità, la tenacia nel cercare di tenere vivo questo Paese. Ci sono quelli che dicono che qui di speranza non ce n’è più e se ne vanno in giro per il mondo per essere per sempre sradicati dalla loro terra.
E il secondo incontro?
Mi ha colpito l’incontro con la piccola comunità dei cristiani che parla e celebra in ebraico. Viene guardata dagli ebrei come una forma di protesta e di provocazione e dai palestinesi e dal resto del mondo come una cosa strana, quasi che sia impossibile che ci possano essere cristiani che parlano in ebraico, la lingua di un popolo che è considerato da molti qui con disprezzo, odio e risentimento. Eppure loro pregano, accolgono e desiderano non essere ignorati.
Come vescovi della Lombardia cosa portate a casa da questo pellegrinaggio e quale messaggio trasmetterete ai fedeli?
La parola che spesso ci hanno ripetuto e che quindi portiamo a casa è l’apprezzamento per la nostra presenza: «Grazie perché siete qui – ci hanno detto in molti -, perché ci date la convinzione di non essere abbandonati, perché aprite la strada ai pellegrini che come si spera torneranno a popolare e a dare vita a questi luoghi santi». Insieme però ci sono state tante invocazioni di solidarietà, tanti luoghi in cui si è detto: ma come si sostiene questa missione in mezzo ai beduini? Come si continua questa opera di assistenza ai bambini audiolesi? La risposta è che esistono e vanno avanti, perché vengono aiutate. Quindi è necessario un impegno di solidarietà che non sia solo un momento emotivo, ma una collaborazione costante.

La fede dei cristiani milanesi in che modo è sollecitata da questa realtà?
Abbiamo da imparare, da essere grati ai cristiani che qui abbiamo conosciuto e sentito parlare. Mi sono fatto l’idea che la presenza dei cristiani è forse l’unica che può propiziare un incontro. Andando a trovare diverse comunità molti ci hanno detto: come suore, come frati, come parrocchia, facciamo la scuola e ospitiamo indifferentemente musulmani e cristiani. La scuola di musica della Custodia ha insegnanti ebrei e studenti musulmani, ebrei e cristiani. Vuol dire che la casa dove dimorano i cristiani può essere la casa dove si incontrano tutte le forme della vita umana, proprio perché Gesù è il fondamento di una fraternità universale, in cui noi continuiamo a credere.
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