Leoncavallo: il cuore dei ribelli sfondato dai “liberali”, Milano voleva bene al centro sociale sgomberato

Alla fine lo hanno sfondato con la polizia. Il Leo è un monumento non solo per quei murales che nel 2006 l’allora assessore alla Cultura di Milano definì “la Cappella Sistina della modernità”. Non è il primo centro sociale italiano o milanese ma il più celebre e famoso: un simbolo. Forse anzi il simbolo per eccellenza della sopravvivenza carsica del Movimento di cui diventò espressione eminente 50 anni fa, quando gli enormi magazzini deserti di via Leoncavallo 22 vennero occupati, il 18 ottobre 1975, da un gruppo di militanti di diverse organizzazioni tra la miriade allora attive nella metropoli lombarda.
C’era di tutto: i comitati di quartiere e di caseggiato del Casoretto e di Lambrate, Avanguardia Operaia, Lotta continua, i Comitati antifascisti, il Movimento lavoratori per il socialismo. Raccontando 15 anni dopo quell’occupazione Primo Moroni, compianto padre storico del Movimento milanese, ci teneva a marcare la differenza con i Circoli di proletariato giovanile che di lì a poco si sarebbero diffusi a Milano: “Il Leoncavallo ha caratteristiche dissimili. È stata un’occupazione unitaria, diretta espressione di organismi politici adulti formatisi negli anni successivi al ‘68. Nasce in un quartiere di storiche e importanti tradizioni operaie”. L’obiettivo degli occupanti, in realtà, era uno stabile di modeste dimensioni in via Mancinelli. Solo una volta entrato il gruppo scoprì gli adiacenti magazzini di via Leoncavallo, di ben altre dimensioni: 3600 mq. Il percorso del Leo, per molti anni, riassume quello del Movimento, delle sue divisioni e trasformazioni.
La resistenza iniziale dei militanti più tradizionali alle spinte dei circoli giovanili, la suggestione della lotta armata che tenta una parte degli occupanti, la scelta della non violenza, il battesimo delle Tute Bianche in tandem con i centri sociali del nord-est veneto, il rapporto con Rifondazione comunista, una progressiva istituzionalizzazione ma anche l’organizzazione di strutture popolari radicate nella realtà dei quartieri operai che circondavano il centro: il capannone per le compagnie teatrali e quello per la stampa dei bollettini di controinformazione, l’organizzazione di assemblee e feste, la Casa delle Donne, la Scuola popolare, Radio Specchio Rosso, la lotta serrata contro lo spaccio dell’eroina, che stava allora prendendo piede nella metropoli lombarda come in tutto il Paese.
L’Italia intera scoprì l’esistenza del Leo, nel modo più tragico, il 18 marzo 1978 quando due ragazzi del centro, Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, Fausto e Iaio, furono uccisi subito dopo essere usciti dal Leo, dove avevano in programma di tornare di lì a poco. Erano impegnati in un’inchiesta proprio sullo spaccio d’eroina. Forse furono uccisi per questo. Forse i killer erano neofascisti che miravano solo ad ammazzare qualche “compagno”. Non si è mai scoperto. L’associazione “Mamme del Leoncavallo” nacque allora e ancora resiste. Il più celebre Centro sociale d’Italia, come ricordava Primo Moroni, non era nato come espressione delle nuove ondate di rivolta culturale e politica giovanile. L’attenzione per il punk e l’avanguardia arriverà in un secondo momento, prima poco per volta, poi con lo sfondamento provocato dalla chiusura del centro sociale punk Virus. Gli sloggiati trovano rifugio al Leo, danno vita al collettivo HelterSkelter, iniziano a organizzare concerto e da quel momento il Leoncavallo diventa uno dei principali centri musicali e artistici della città in quel momento più all’avanguardia di tutte.
Sono passati esattamente 35 anni da quando il Leo fu sgomberato per la prima volta, il 16 agosto 1989. Il proprietario dei magazzini, l’immobiliare Scotti, aveva venduto lo stabile al gruppo industriale della famiglia Cabassi, che aveva reclamato e ottenuto dal sindaco lo sgombero con la forza. I ragazzi del centro si difesero, bersagliarono la polizia con sassi e molotov dal tetto, parecchi finirono sotto processo ma la corte riconobbe loro l’aver agito “per alti valori morali e sociali”, stigmatizzò le scelte dell’amministrazione comunale guidata dal sindaco Paolo Pillitteri, socialista, emise condanne miti e con la condizionale. Il 23 settembre una grande manifestazione di solidarietà si concluse con la rioccupazione del centro sociale.
Da allora il Leo ha cambiato sede due volte. La prima, nel 1994, seguì a una lunga trattativa conclusa con l’assegnazione di una sede temporanea in via Salomone ma pochi mesi dopo, il 9 agosto, mese maledetto perché le forze dell’ordine approfittano della città svuotata per procedere, anche la sede temporanea fu svuotata con la forza. La sede di via Watteau, una ex cartiera di 4000 mq, quella sgomberata ieri, fu occupata un mese dopo lo sgombero grazie a un accordo informale con Marco Cabassi, proprietario dello stabile. A partire dal 1999, però, i Cabassi iniziarono a reclamare l’edificio e i vari tentativi di trovare una soluzione, nonostante l’impegno anche di sindaci sia di destra come Letizia Moratti sia di sinistra come Pisapaia e Sala, non sono mai arrivati al traguardo. In compenso nel novembre scorso è arrivata al ministero degli Interni l’ingiunzione a rifondere i Cabassi per oltre 3 mln, cifra che il Viminale chiede a propria volta alla presidente delle Mamme del Leoncavallo Marina Boer. Da ieri il Leoncavallo non c’è più e la destra sbandiera lo scalpo di quello che è ormai un centro culturale essenziale per Milano. Ma anche stavolta, come nel caso dei precedenti tentativi di espugnare il Leo, l’ultima parola deve ancora essere detta.
Qual è la tua reazione?






