Medicina di emergenza-urgenza, Ricciuto (Grassi di Ostia): «Servono risorse, cultura sanitaria e una nuova visione del sistema»
Dal Pronto Soccorso del Grassi di Ostia, il Direttore del Dea Giulio Maria Ricciuto, in un’intervista a Voce della Sanità, racconta la realtà quotidiana di chi lavora in prima linea tra carenze di personale, disagio sociale e necessità di un nuovo modello di emergenza-urgenza
di Elisabetta Turra
Sovraccarico, carenza di personale, pazienti cronici e fragili che si riversano nei pronto soccorso: per Giulio Maria Ricciuto, direttore del Dea dell’Ospedale GB Grassi di Ostia (Asl Roma 3) e Past President SIMEU Lazio, il sistema dell’emergenza-urgenza è una frontiera che resiste, ma non può più essere lasciata sola. «Il nostro lavoro è usurante, ma la risposta non può essere solo economica o pensionistica. Serve una riforma culturale e strutturale che restituisca dignità alla professione e sicurezza ai cittadini», spiega in un’intervista esclusiva a Voce della Sanità.
Ogni pronto soccorso è una frontiera
«Non esiste un pronto soccorso che non sia una frontiera», dice Giulio Maria Ricciuto, che di pronto soccorsi ne conosce ogni angolo, ogni ritmo, ogni contraddizione. A Ostia, dove dirige il Dea e la Uoc di Medicina d’Urgenza dell’ospedale GB Grassi, questa definizione è ancora più concreta: “Qui si sommano problemi sanitari e sociali, e la vera difficoltà – che è anche la sfida più grande – è prendersi cura di un paziente che non conosci, che non ti ha scelto e che arriva nel momento di maggiore vulnerabilità, clinica e umana».

Ogni turno è una storia a sé, una sequenza di scelte in tempo reale, con la pressione che non si ferma mai. «Lavorare in un pronto soccorso significa non potersi mai programmare – spiega Ricciuto -. Ogni attimo è diverso dall’altro, ogni paziente ha un bisogno unico, e bisogna decidere in pochi istanti chi aiutare per primo e come farlo. Spesso significa salvare vite umane».
La crisi di attrattività e il rischio per il sistema
Dietro l’umanità di questo lavoro, c’è una fatica crescente. La crisi di attrattività della medicina d’urgenza rischia di svuotare i reparti e mettere in crisi l’intero sistema. «Oggi la carenza di personale è enorme, e molti pronto soccorso sopravvivono solo grazie a professionisti esterni, spesso con contratti libero professionali o di cooperativa», racconta Ricciuto. La soluzione, però, non è solo nel reclutamento. «Bisogna ripensare il modello organizzativo, riconoscendo al medico d’emergenza-urgenza il ruolo di team leader di un gruppo multidisciplinare inserito in una rete organica, capace di parlare un linguaggio comune tra territorio, soccorso preospedaliero e ospedale”. Per Ricciuto, l’emergenza-urgenza va riconosciuta come il quarto pilastro del Servizio sanitario nazionale, accanto a distretto, ospedale e prevenzione. “Per farlo servono investimenti straordinari e ordinari su risorse umane, formazione, innovazione e integrazione territoriale. Bisogna agire come si fa per salvare le specie in via di estinzione».
Un territorio fragile che si riversa in pronto soccorso
La fragilità del sistema territoriale è una delle cause principali della pressione sui pronto soccorso. «La pandemia lo ha dimostrato chiaramente – osserva Ricciuto -. Senza una rete efficace di medici di base, consultori, assistenza domiciliare e strutture intermedie, i pazienti cronici e fragili finiscono per riversarsi nei pronto soccorso. E questo genera attese, affollamenti e un sistema di accoglienza sotto pressione». A preoccupare, spiega, non sono tanto i “codici minori”, quanto l’afflusso continuo di pazienti cronici e anziani, spesso soli o senza caregiver, che arrivano per peggioramenti evitabili con cure tempestive sul territorio. «Serve un cambio di passo culturale – aggiunge – e una sanità di prossimità capace di costruire reti di assistenza quotidiana, non solo di emergenza».
«Il nostro è un lavoro usurante, ma non bastano sgravi e incentivi»
Sulla proposta di riconoscere il lavoro nei reparti di emergenza-urgenza come usurante, Ricciuto non ha dubbi: «È vero che il nostro lavoro comporta un impegno cognitivo e fisico intenso, con effetti documentati sulla salute, ma limitarci a questo riconoscimento rischia di essere un alibi per la politica. Non bastano sgravi pensionistici o bonus: bisogna rendere la disciplina attrattiva, ascoltando le proposte che come comunità scientifica abbiamo già avanzato».
Ricominciare da cultura, formazione e riconoscimento
«Bisogna ripartire dalla cultura sanitaria e dal rapporto con i cittadini», afferma il direttore del Grassi. «Il primo contatto con la sanità non deve avvenire in pronto soccorso, ma attraverso l’educazione, la prevenzione e un uso appropriato dei servizi». Ricciuto immagina un sistema in cui il medico d’urgenza sia riconosciuto come leader clinico di un gruppo multidisciplinare, all’interno di strutture omogenee in tutto il Paese, dotate di soccorso preospedaliero, OBI, terapia sub-intensiva e degenza breve. «I codici minori dovrebbero essere gestiti in ambulatori separati – aggiunge – e le lunghe attese per i ricoveri affidate agli specialisti dei reparti. Solo così potremo ridare dignità e sostenibilità al sistema. La carenza di medici – conclude – ha aperto la strada al lavoro libero professionale, che oggi rappresenta anche un riconoscimento economico del valore reale del nostro lavoro. Riportare queste risorse dentro il Servizio sanitario nazionale sarà difficile, ma è indispensabile se vogliamo che l’emergenza-urgenza resti un pilastro della sanità pubblica italiana».
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