Perché i liberali non devono regalare alla destra la bandiera del garantismo

Condivido quanto scritto da Francesco Cundari lunedì nell’articolo “La strana amnesia dei libdem sulla legge elettorale”, che prendeva le mosse dagli interventi dei molti esponenti riformisti e libdem sul palco del Linkiesta Festival. O meglio, condivido i due assunti del pezzo ma non la conseguenza che Cundari sembra trarre circa la separazione delle carriere. Mi spiego.
Sono d’accordo che ipotizzare oggi uno spazio, e soprattutto un ruolo politico, per chi si vuole porre in una equidistante alternativa ai due poli significhi prescindere dalla vigente legge elettorale maggioritaria. E anche da quella prossima ventura, senza i collegi di cui si parla in questi giorni, che addirittura assegnerebbe il cinquantacinque per cento dei seggi alla coalizione che prendesse anche un solo voto in più della seconda (ovviamente sopra una soglia del quaranta per cento o poco più, allo stato facilmente raggiungibile): con il cinquantacinque per cento dei seggi, tra le altre cose, nella prossima legislatura si eleggerebbe tranquillamente anche il successore di Sergio Mattarella, il passaggio probabilmente più cruciale per la politica e le istituzioni italiane dei prossimi anni.
Sono d’accordo anche «sui rischi di una deriva ungherese (o trumpiana) che questo governo manifesta in mille modi, sulla giustizia e non solo». Le grandi crisi internazionali – in particolare quella ucraina – hanno ancorato Giorgia Meloni a una inevitabile solidarietà con gli altri principali Paesi europei consapevoli della minaccia sistemica costituita dall’aggressione russa a Kyjiv, del che le do volentieri atto, considerando anche l’attitudine del suo principale sodale, Matteo Salvini. In questo senso la politica estera ha funzionato come una sorta di guardrail per il governo Meloni, già con Joe Biden alla Casa Bianca e successivamente con l’amico (suo) Donald Trump.
Se si dovesse arrivare a una soluzione per la guerra in Ucraina, come auspichiamo che accada in termini giusti e duraturi, e proseguisse il processo di pace in Medio Oriente, Meloni non avrà più i guardrail e potrà muoversi più liberamente e genuinamente, facendo quello che avrebbe voluto fare e non ha fatto sui vari fronti interni ed europei (vedi la recente riaffermazione della difesa del diritto di veto nelle decisioni Ue).
A maggior ragione senza l’altro guardrail istituzionale rappresentato da un presidente rigoroso nel rispetto della Costituzione, dello Stato di diritto e del ruolo dell’Italia nel processo di integrazione europea come Mattarella, il governo Meloni II sarebbe – naturalmente cambiando quello che c’è da cambiare – come il Trump del secondo mandato rispetto a quello del primo: ci aspetterebbe un governo securitario, reazionario, nazionalista e nei fatti antieuropeo.
Cundari dal suo ragionamento trae (anche) la conclusione che, sebbene sarebbe propenso a votare Sì al referendum sulla separazione delle carriere, quasi certamente non lo farà, proprio per il rischio di una deriva ungherese.
Su questo dissento, senza pretesa di convincerlo a cambiare idea, ma offrendo un punto di vista tutto politico. Non entro nel merito del testo di revisione costituzionale, discusso e discutibile come sempre in questi casi, con esimi costituzionalisti – anche di area liberale – in disaccordo tra loro; mi limito a citarne uno, diciamo così, a mio favore come il presidente emerito della Consulta Augusto Barbera, una vita politica nella sinistra, che ha definito la separazione delle carriere di cui stiamo discutendo «una riforma liberale divenuta inevitabile».
Nessun rischio di una deriva ungherese (se poi gli elettori magiari davvero riuscissero tra pochi mesi a liberarsi e a liberarci da Viktor Orbán cambieremo riferimento in trumpiana) è contenuto nel testo della riforma approvata, che ribadisce l’autonomia della magistratura. Piuttosto, i rischi – come si diceva sopra – risiedono in una nuova vittoria meloniana senza più guardrail.
Ecco, per battere Meloni nelle urne occorre un’alleanza per l’alternativa di cui i liberal-democratici, i riformatori, i riformisti e gli europeisti siano co-protagonisti con le loro bandiere distintive e riconoscibili dai “loro” elettori, che devono sentirsi rassicurati sul fatto che l’alleanza non sia egemonizzata e perimetrata dalle componenti più intransigenti e populiste, anche a partire dal tema giustizia.
Ci sono centinaia di migliaia di elettori che pensano alla separazione delle carriere non come a una riforma di Carlo Nordio, e neppure come a una riforma berlusconiana, ma come una riforma pannelliana, radicale, liberale, socialista e garantista. E che vogliono votare Sì perché non vogliono lasciare una bandiera giusta a una maggioranza sbagliata – manettara, giustizialista e disinteressata delle carceri.
Se la maggioranza sbagliata fa la cosa giusta, per combatterla meglio e batterla nelle urne da qui a qualche semestre, la maggioranza giusta – anche se lo è per necessità più che per virtù – non deve fare come un sol uomo la cosa sbagliata.
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