Alle regionali vince spesso chi governa, perché domina il voto di scambio

Ieri Christian Rocca, Francesco Cundari e Mario Lavia hanno spiegato bene come i risultati delle regionali nelle Marche rappresentino una sonora smentita di tutti i presupposti metodologici, ideologici e politici della strategia “testardamente unitaria” perseguita dalla segretaria del Partito democratico Elly Schlein.
Nell’unica elezione teoricamente aperta di questa tornata regionale, non ha funzionato nessuna delle armi a cui il campo largo aveva affidato le speranze di vittoria: né l’accettazione dell’ipoteca populista, né il ripudio della stagione riformista, né l’allargamento quantitativo della coalizione fino a farne un campo, oltre che largo, politicamente indifferenziato e programmaticamente demagogico, unito solo da una polverosa retorica di unità democratica contro il pericolo delle destre.
Non ha funzionato, più in generale, la pretesa di contrapporre a un populismo di destra cattivista un populismo di sinistra buonista, e a una maggioranza silenziosa e malmostosa in preda alla sindrome dell’assedio, scrupolosamente coltivata dalle narrazioni sovraniste, una coalizione arcobaleno di minoranze di varia risma ideologicamente radicalizzate e unite da un’impronta minacciosamente antagonista.
La scelta di Matteo Ricci di imbarcarsi simbolicamente sulla Global Sumud Flotilla, che non occorre essere sostenitori di Netanyahu per giudicare qualcosa di molto diverso da una confraternita umanitaria, e di promettere come prova d’amore per la pace il riconoscimento della Palestina da parte della Regione (come fece il Veneto con la Crimea alcuni anni fa) è stato il suggello di questo impazzimento identitario tanto protervo, quanto grottesco.
Ad avere però pesato sul risultato delle Marche è anche un altro fattore, specificamente legato al tipo di consultazione, che se non rende meno speciose le scuse accampate dalla sinistra perdente, non trasforma certo l’esito della consultazione in una certificazione o in un premio al buongoverno della destra vincente.
La tendenziale inamovibilità delle coalizioni uscenti nelle regioni, a prescindere da qualunque risultato concreto, è uno dei tratti più caratteristici e trasversali della crisi della democrazia italiana. Lo dimostra anche l’inscalfibile protettorato della sinistra su Campania e Puglia, regioni storicamente tutt’altro che rosse, ma elettoralmente espugnate da gruppi di potere locale perfettamente integrati, con clientele consolidate e diffuse, tanto soffocanti dal punto di vista sociale, quanto inattaccabili da quello elettorale, a maggior ragione quando a votare è solo un cittadino su due e il maggiore incentivo al voto è la perpetuazione dello status quo.
Questo fenomeno è clamoroso a livello regionale, dove emergono anche vere e proprie degenerazioni dinastiche, proprio perché le regioni, per una scelta improvvida del legislatore costituzionale, hanno cessato da tempo di essere uno strumento di governo, ma attraverso una gestione irresponsabile del potere e della spesa locale, peggiore di quella della partitocrazia primo-repubblicana, sono diventate uno strumento di acquisizione e sfruttamento del consenso.
Per dirla in modo ancora più brutale, le regioni sono il livello istituzionale in cui per i partiti è più semplice e meno rischioso comprare i voti. Il famoso federalismo all’italiana, alla fine, a questo è servito: a istituzionalizzare il voto di scambio. Infatti, nelle regioni in genere vince chi governa, perché chi governa paga, e chi paga vince.
Insomma, a far perdere la sinistra nelle Marche non è stato il destino cinico e baro, ma a far vincere la destra non è stato il profilo da statista di Francesco Acquaroli, come a far vincere Roberto Fico in Campania non sarà la sua statura da onesto guaglione post-grillino.
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