Contro lo sfruttamento selvaggio delle spiagge italiane, con ricavi ai balneari da 30 miliardi l’anno

Ormai già s’intravede la fine dell’estate, ma la litania dei balneari e delle relative concessioni non conosce tregua, a maggior ragione dopo una stagione che ha visto cali stimati tra il 20 e il 30% sia in termini di presenze sia per i consumi, schiacciati da un caro vita che continua a salire mentre i salari reali sono in calo del 9% rispetto al 2021 e di fatto in arretramento ormai dal lontano 1990.
Le associazioni di settore chiedono “basta attacchi e penalizzazioni alle imprese balneari”, ma si tratta di un sistema – come argomenta oggi il geologo del Cnr Mario Tozzi su La Stampa – che «ha consentito enormi profitti (circa 30 miliardi di euro fatturati contro i 100 milioni di canoni, e ammettendo che non ci sia nero) e ha distrutto le nostre spiagge». Da qui una proposta – drastica – in cinque punti per invertire la rotta: ogni Comune italiano deve assicurare che il 50% delle spiagge (senza contare tratti non balneabili, Parchi nazionali, impianti industriali, etc) resti sempre libero; della metà rimanente, una parte può essere gestita in concessione demaniale a prezzi calmierati e servizi di base gratuiti; cosa resta dalle concessioni demaniali può essere dato in concessione ai privati, con scadenze brevi e forti garanzie ambientali, garantendo in ogni caso l’accesso libero alla battigia come peraltro prevede la legge; nessuna struttura fissa sulle spiagge; da ottobre ad aprile spiagge completamente libere, anche dalle strutture rimovibili.
Si tratta di un approccio che guarda a quanto già accade in altri Paesi mediterranei, dalla Grecia alla Spagna, per «sottrarre alla speculazione le coste, evitare che l’infezione da stabilimento si propaghi, rendere certa la libera fruizione e tutelare le caratteristiche fisiche delle spiagge», come argomenta Tozzi.
La proposta di Tozzi è però molto distante da quanto sta realmente accadendo sulle spiagge del Paese, come ricordato recentemente anche dalla Corte dei conti: «I plurimi e diversi richiami ricevuti dal Governo italiano affinché venissero messe a gara pubblica le concessioni sembravano aver trovato finalmente ascolto, atteso che il 31 dicembre 2024 doveva essere il termine ultimo per completare le procedure essendo anche prevista una delega al Governo per il riordino generale del sistema delle concessioni; il quadro così delineato ha subìto un rilevante mutamento per effetto del d.l. 16 settembre 2024, n. 131, conv. con l. 14 novembre 2024, n. 166. Tra le principali novità apportate si rileva che le concessioni in essere continuano ad avere efficacia fino al 30 settembre 2027 (ovvero, in presenza di “ragioni oggettive che impediscono la conclusione della procedura selettiva”, fino al 31 marzo 2028), ma, contrariamente alla disciplina previgente, è fatta espressamente salva la validità delle procedure di gara intraprese anteriormente a tale data, incluse quelle deliberate prima dell’entrata in vigore del decreto-legge».
Ad oggi le gare devono essere indette entro il 30 giugno 2027, mentre il Governo prevede indennizzi in favore del concessionario uscente da parte del nuovo titolare in modo da garantire “un'equa remunerazione” degli investimenti effettuati.
«In attesa di una valutazione delle autorità europee – argomenta nel merito la Corte dei conti – si deve notare la assai scarsa valorizzazione del principio della remuneratività della concessione per l’Ente concedente, principio che non sarebbe certo distonico rispetto alla legislazione di contabilità pubblica, che per i contratti attivi richiede il ricorso al pubblico incanto allo scopo di massimizzare l’introito erariale. A maggior ragione questo requirente auspica che l’ulteriore congruo periodo di proroga sia effettivamente l’ultimo e che si ponga in essere, nella fase delle gare, una scrupolosa vigilanza per evitare, o almeno contenere, l’infiltrazione della criminalità organizzata nelle procedure. Occorrerà un lavoro di costante sinergia tra magistratura, autorità amministrative e forze di polizia».
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