Così i diamanti artificiali promettono di resistere alla furia della fusione
L’ambizione di portare la fusione nucleare fuori dai laboratori e dentro vere centrali energetiche spinge la ricerca verso materiali in grado di sopportare condizioni fisiche quasi impossibili. È in questo contesto che l’Università della California ha deciso di investire 8 milioni di euro in un programma triennale dedicato ad accelerare tecnologie strategiche per la fusione, coinvolgendo diversi campus e due laboratori nazionali.
Tra i progetti finanziati spicca quello dell’Università della California di Santa Cruz, che ha ottenuto circa 555.000 euro per sviluppare un sistema di monitoraggio capace di operare in una delle condizioni più ostili mai affrontate dall’ingegneria: l’interno di un reattore a fusione. Qui la radiazione è così intensa da distruggere rapidamente qualunque sensore tradizionale. Gli strumenti attuali, basati su tecnologie al silicio, risultano infatti inadatti a funzionare per tempi prolungati, un limite che ostacola la realizzazione di impianti a lunga durata.
Il gruppo del Santa Cruz Institute for Particle Physics lavora da anni sulle cosiddette LGAD, diodi a valanga di silicio capaci di misurazioni estremamente precise. Tuttavia, l'arrivo di flussi di particelle e neutroni tipici della fusione richiede materiali ben più resistenti. Da qui nasce l’idea di sostituire il silicio con diamanti artificiali, un materiale che, oltre alla durezza, presenta stabilità strutturale eccezionale anche sotto un bombardamento di radiazioni ad altissima energia.
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