I comici dai sauditi, gli influencer sulla flottiglia, e la fine del senso del ridicolo

Ottobre 4, 2025 - 12:00
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I comici dai sauditi, gli influencer sulla flottiglia, e la fine del senso del ridicolo

Il miglior criterio per operare una divisione di massima tra i caratteri degli umani lo fornisce la scena del filo interdentale in “Pretty Woman”. O sei Richard Gere che sospira qualcosa come: è raro che le persone mi sorprendano; o sei Julia Roberts che sbuffa qualcosa come: beato te, la maggior parte mi sciocca a morte.

Poiché io di solito somiglio più al miliardario fesso che alla mignotta sveglia, il valore del mio scioccarmi quelle poche volte che qualcuno mi sorprende è doppio: mai avrei pensato che, a fornirmi la migliore chiave di lettura per l’impressione che mi hanno fatto le barche degli occidentali che si baloccano col fermare le guerre in posti troppo complicati per aprirci un Valtur, fosse un comico dell’Ohio che si esibisce in Arabia Saudita.

L’occidente che finge di occuparsi delle buone cause solo per esibizionismo, per farsi autoscatti donanti, per stare al centro del discorso pubblico e pure con la posizione più presentabile, questo meccanismo qui non è esattamente una novità.

Nel resto del mondo, in cui rispetto agli skipper che hanno sostituito gli accordi di Camp David non c’è la stessa isteria della stampa italiana, il caso più noto resta quello del rettangolo nero che i bianchi postavano su Instagram l’estate di Black Lives Matter, quando stare dalla parte giusta era così importante che negli studi televisivi di Roma nord c’erano conduttrici che s’inginocchiavano in morte d’un nero di Minneapolis, ché morti ingiuste di neri da queste parti non ce n’erano, o comunque non erano altrettanto telegeniche.

Qui da noi il caso eclatante è quello della cosiddetta flottiglia (che i giornali italiani chiamano flotilla, percependosi giornali inglesi), che è salpata pronta a compiere l’impresa più urgente di questo nostro tempo satollo: far sentire utili gli occidentali di sinistra.

L’esibizionismo è forse l’unico settore nel quale la divisione tra destra e sinistra abbia ancora un senso. Quello di destra si sfoga andando a “Temptation Island” o al “Grande Fratello”, è un esibizionismo non bisognoso di stato sociale, si accendono la telecamera del telefono in faccia senza pretestuose buone cause. L’esibizionista di sinistra, invece, ha bisogno di molto welfare. Deve stare al centro dell’attenzione non perché è vanesio ma perché è dalla-parte-giusta-della-storia, non perché gli serve l’adrenalina dell’applauso ma perché sta salvando il mondo, non perché gli piaccia starci ma perché è suo dovere civile. E quindi eccolo che s’inginocchia per il razzismo, che fa una crociera per le guerre, che si stende in autostrada per il cambiamento climatico.

Sapendo che quando arriverà lì lo identificheranno e lo rimanderanno indietro, l’esibizionista di sinistra si fa il suo bravo video in cui dice che se lo state vedendo significa che Israele lo ha rapito e lo sta trattenendo contro la sua volontà. Ne ho visti a decine ripostati da Susan Sarandon, che quando c’è una buona causa non si tira mai indietro, e mi sono chiesta quanta sospensione del senso del ridicolo occorra per registrare un filmato del genere con la faccia seria. Quasi tutti lo facevano tenendosi davanti al petto un passaporto, che immagino servisse a dire «se mi uccidono e dicono che ero senza documenti sappiate che mentivano», solo che era un passaporto chiuso e quindi avrebbe potuto essere di chiunque, e comunque l’effetto era rievocare Aldo Moro con la copia di Repubblica: un travestimento di Halloween un po’ in anticipo e non particolarmente riuscito.

Ho Instagram pieno di gente che si esalta dicendo siamo tantissimi, abbiamo riempito piazza del Duomo, e non hanno ventun anni, eppure sembrano davvero convinti che essere in piazza serva a qualcuno oltre che a loro stessi, oltre che a dirsi quanto sono abbondanti nonché colorati nonché fotogenici. Poi c’è il problema del riempimento automatico, per cui di fronte all’esaltazione da numeri è impossibile non canticchiare «e Forza Italia, che siamo tantissimi», ma insomma, ecco: ci sono davvero adulti che quando lanciano i giocattoli dal seggiolone pensano di stare intavolando una trattativa di politica internazionale.

Ci sono adulti che, se partono in barca costringendo la stampa e le piazze a smettere di preoccuparsi dei palestinesi sotto le bombe e a incanalare tutta l’economia dell’attenzione verso l’occidentale cui l’esercito israeliano vorrà sì dare un panino con la frittata prima di rimandarlo a casa, o ce lo maltrattate?, ci sono adulti convinti di stare facendo il bene della buona causa altrui, mica dell’ego loro.

Ci sono, ed è una buona notizia. Significa che siamo davvero dei privilegiati, e non per quelle stronzate da Instagram del privilegio etero, del privilegio cis, del privilegio bianco. Quelle stronzate che fanno dire a Whoopi Goldberg, premio Oscar e milionaria, che un nero americano vive peggio di una donna iraniana, avendo ella evidentemente disimparato a ragionare obnubilata dagli slogan.

Lo siamo, privilegiati, perché non viviamo in mezzo a quel troiaio irrisolvibile rispetto al quale ho una cosa da confidarvi. Nessuno fuori dai social e dai giornali parla del medioriente, neanche quelli che sui social sostengono che non ci dormono e raccontano che a cena non parlano d’altro. Nessuno parafrasa neanche «Me ne fotto del Ruanda», perché pure il controcorrentismo è inflazionato, pure dire che non te ne interessi sarebbe troppo. È una guerra come un’altra, uno sterminio come un altro, una sfiga toccata ad altri come un’altra: non se ne parla come non si parla della Nigeria o del Sudan.

Se qualcuno ne accenna per cinque secondi, prima di passare a parlare dei figli che ancora non hanno l’insegnante di matematica perché le assegnazioni delle cattedre si fanno sempre più tardi, o della difficoltà di trovare un medico di base appena decente, o della stagione del tartufo, o del campionato di calcio, se qualcuno in privato ne accenna io dico sempre e solo una cosa, che ho deciso di svelarvi oggi per vedere se siete Julia o Richard.

Se proprio l’argomento salta fuori, io dico che è come quando hai dei bambini piccoli che litigano da ore e a un certo punto sbotti: non m’interessa chi ha cominciato, adesso avete rotto i coglioni tutti e due. Il mondo non può stare in ostaggio di una zona che non riesce a mettersi d’accordo da prima che noi nascessimo. C’è un’unica soluzione, ed è l’atomica. Radiamo al suolo il medioriente, e andiamo avanti con le nostre vite con un problema di meno.

Non ho mai, e dico mai, incontrato una persona, quale che sia la sua convinzione sui torti e le ragioni di quelle zone, che mi dicesse che la modalità «avete rotto i coglioni, atomica» non era una buona idea nonché l’unica soluzione sensata. Il massimo della sensibilità che abbia incontrato, fuori da Instagram e da quei suoi derivati che sono ormai le manifestazioni di piazza, è stato: però mi dispiace per la Siria.

Ciò detto, tutta la fotogenica agitazione occidentale rappresenta una buona notizia. Persino i mitomani, li avrete visti anche voi, che sulla loro barca a Porto Ercole si riprendevano dichiarandosi nave d’appoggio alla flottiglia quando al massimo andavano a fare un giro all’Elba. Sono tutti una buona notizia, perché significano che non abbiamo problemi veri, o che quelli che abbiamo (gli stipendi bassi, o l’assegnazione tardiva del prof di matematica) siamo in grado di dimenticarli per baloccarci coi destini del mondo.

Mentre noi riempivamo i giornali dell’happy hour di liberazione della Palestina, su quelli americani c’era una minima maretta perché alcuni comici non minori andavano a esibirsi, immagino ricoperti di dobloni, a un festival a Riad. Il festival dura fino al 9 ottobre, ma già giovedì c’era un resoconto sul New York Times secondo il quale Dave Chappelle aveva detto che c’era più libertà d’espressione in Arabia Saudita che in America, dove se parli male di Charlie Kirk ti cancellano.

È interessante che Dave Chappelle, nato a Washington, residente in Ohio, abbastanza di successo da poter spernacchiare i dipendenti transessuali di Netflix che avevano invocato la sua cancellazione, abbia le idee così confuse da pensare che il guaio di Jimmy Kimmel (tre giorni senza andare in onda) sia paragonabile a quelli in cui immagino incorra l’eventuale comico sgradito d’un paese confessionale. Dopo Whoopi che starebbe meglio in Iran, Dave che sta meglio in Arabia Saudita. E dire che il senso del ridicolo sarebbe il loro mestiere.

Puoi andare a esibirti in un posto che taglia la testa ai cittadini che si comportano male? Certo che sì, i soldi sono soldi. Però, se i soldi li hai fatti dicendo le cose che a nessuno faceva comodo ascoltare, la tua esibizione non può includere un giuramento di fedeltà in cui dichiari di credere che l’Arabia Saudita sì che è un posto libero, mica quelle brutte democrazie occidentali.

Cioè, può, certo che può – mica sono un emiro o un ayatollah e voglio censurarti – ma diventa difficile non ridere di te invece che con te. Diventi pericolosamente simile al turista della rivoluzione che si filma dicendo che se vedete questo video lui è in pericolo, sapendo benissimo che in pericolo non è e non sarà, perché una cosa Israele e l’Arabia Saudita hanno in comune, ed è non essere così fessi da torcere un capello ai visitatori occidentali, neanche se si percepiscono scomodi, neanche se si percepiscono controcorrentisti, neanche se si percepiscono brigate partigiane.

E questa cosa possono non saperla le influencer sceme che sono troppo impegnate ad accendersi la telecamera del telefono in faccia per capire il mondo, ma se non la sanno neanche gli ultimi intellettuali rimasti in occidente, cioè i comici, allora mi viene il sospetto che la catastrofe sia inevitabile, e che magari uno di questi giorni non saremo più così privilegiati da avere come problema principale la stagione del tartufo. Eventualità che mi sciocca a morte.

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