Investire i soldi in banca: attenzione a inflazione e costi nascosti
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Scopri come investire i soldi in banca per un massimo ritorno economico, facendo attenzione a inflazione e costi nascosti come le commissioni.
Il legame tra italiani e la propria banca ha radici profonde nella cultura finanziaria nazionale. Per generazioni, depositare i risparmi presso l’istituto di credito locale – magari quello dove si ha il conto corrente, dove si è acceso il mutuo, dove si conosce personalmente il direttore di filiale – è stata considerata una scelta naturale, quasi ovvia. Questa preferenza non è solo questione di praticità ma affonda in dinamiche psicologiche comprensibili: la percezione di sicurezza derivante dal rapporto consolidato, la fiducia nell’istituzione bancaria come entità solida e regolamentata, la comodità di avere tutto “sotto lo stesso tetto” senza dover gestire molteplici relazioni finanziarie.
Quando arriva il momento di investire i risparmi, molti piccoli e medi risparmiatori si rivolgono spontaneamente al consulente della propria banca. L’approccio è rassicurante: un professionista che già conosce la situazione patrimoniale del cliente, che può proporre soluzioni “chiavi in mano”, che lavora per un’istituzione percepita come affidabile. Il processo appare semplice: un incontro in filiale, la presentazione di alcuni prodotti finanziari (fondi comuni, polizze, gestioni patrimoniali), la firma di qualche documento, e il gioco è fatto. I risparmi sono “al sicuro” e “investiti”, permettendo al risparmiatore di tornare alle proprie occupazioni quotidiane senza doversi preoccupare troppo.
Le insidie della delega fiduciaria alla banca
Questa delega fiduciaria alla banca è comprensibile ma nasconde insidie che troppo spesso emergono solo anni dopo, quando ci si rende conto che i rendimenti attesi non si sono materializzati o, peggio ancora, che il capitale è cresciuto molto meno di quanto si pensasse. Il problema non è necessariamente la malafede dell’istituto bancario o l’incompetenza del consulente, ma una serie di fattori strutturali che caratterizzano il modello di distribuzione dei prodotti finanziari attraverso il canale bancario tradizionale.
Il primo elemento da comprendere è che i consulenti bancari – pur essendo professionisti preparati – operano all’interno di una struttura aziendale con obiettivi commerciali specifici. Le banche sono imprese che devono generare profitto, e una fonte importante di ricavi proviene dalla distribuzione di prodotti finanziari, sia proprietari (fondi e gestioni della banca stessa o del gruppo) sia di terzi con cui esistono accordi commerciali. I consulenti hanno spesso obiettivi di vendita, budget da raggiungere, prodotti da “spingere” in determinati periodi. Questo crea inevitabilmente un conflitto di interessi: il consulente deve bilanciare l’interesse del cliente con le aspettative aziendali.
Il secondo elemento riguarda la gamma di prodotti effettivamente proposti. Anche se teoricamente una banca potrebbe offrire accesso a migliaia di strumenti finanziari disponibili sui mercati, nella pratica la maggior parte dei consulenti presenta ai clienti una selezione ristretta di prodotti: quelli della casa madre, quelli con accordi di distribuzione privilegiati, quelli su cui la banca ha margini migliori. Questo significa che il cliente vede solo una piccola frazione dell’universo investibile, non necessariamente la più adatta alle sue esigenze o la più conveniente in termini di costi e rendimenti attesi.
I costi nascosti: quando la tranquillità si paga cara
Uno degli aspetti meno trasparenti degli investimenti bancari riguarda la struttura dei costi, spesso articolata e poco immediata da comprendere per il risparmiatore medio. Quando si sottoscrive un fondo comune o una gestione patrimoniale in banca, si attivano diverse voci di costo che erodono progressivamente il capitale investito e i rendimenti generati. La somma di questi costi può essere molto più significativa di quanto il risparmiatore percepisca inizialmente.
Commissioni di sottoscrizione
Le commissioni di sottoscrizione (o di ingresso) sono applicate al momento dell’investimento: una percentuale del capitale versato che va alla banca come compenso per la distribuzione del prodotto. Possono variare dall’1% al 5% o più, a seconda del prodotto. Significa che se si investono 10.000 euro con commissione di ingresso del 3%, solo 9.700 euro vengono effettivamente investiti: 300 euro sono già stati trattenuti. Questo svantaggio iniziale deve essere recuperato attraverso i rendimenti prima ancora di iniziare a guadagnare.
Commissioni di gestione annuali
Le commissioni di gestione annuali (TER – Total Expense Ratio) sono prelevate automaticamente dal fondo ogni anno, indipendentemente dai risultati. Variano tipicamente dall’1% al 3% annuo per i fondi attivi distribuiti dalle banche. Su un orizzonte temporale lungo, queste commissioni hanno impatto devastante per effetto della capitalizzazione composta negativa.Se il fondo rende il 5% lordo annuo, al netto delle commissioni del 2% il risparmiatore riceve solo il 3%, perdendo quasi la metà del rendimento potenziale.
Commissioni di performance
Le commissioni di performance si applicano quando il fondo supera determinati obiettivi (benchmark). Possono sembrare giuste (si paga solo se il gestore fa bene), ma spesso sono strutturate in modo asimmetrico: se il fondo guadagna molto, il gestore prende una percentuale (tipicamente 10-20% del sovrarendimento); se perde, il gestore non restituisce nulla. Inoltre, queste commissioni si applicano spesso su rendimenti che semplicemente seguono il mercato, non su reali capacità di generare valore aggiunto.
Commissioni di switch
Le commissioni di switch (o conversione) vengono applicate quando si vuole spostare il capitale da un fondo all’altro all’interno della stessa famiglia di fondi. Anche solo riequilibrare il portafoglio o correggere scelte iniziali può costare l’1-2% ogni volta. Le commissioni di uscita o riscatto si pagano quando si vuole disinvestire prima di un certo periodo minimo. Possono essere particolarmente onerose nei primi anni (es. 3% se si esce entro 3 anni, decrescente negli anni successivi), intrappolando di fatto il risparmiatore in prodotti inadeguati.
I costi impliciti
A queste commissioni esplicite si aggiungono costi impliciti meno visibili: costi di transazione interni al fondo, inefficienze fiscali, costi di negoziazione. La somma di tutte queste voci può facilmente raggiungere il 2,5-3,5% annuo, cifra enorme che erode sistematicamente il patrimonio. Molti risparmiatori non si rendono conto dell’impatto reale perché questi costi sono “invisibili”: non li si paga esplicitamente ma vengono sottratti automaticamente dal valore del fondo. Si vede solo il rendimento netto finale, senza percezione di quanto sia stato trattenuto lungo il percorso.
Come approfondito sul blog di ioinvesto.net, la somma di questi costi può trasformare investimenti apparentemente redditizi in operazioni che a malapena coprono l’inflazione, o addirittura generano perdite in termini reali. La trasparenza sui costi è migliorata negli anni grazie a normative europee (MiFID), ma resta responsabilità del risparmiatore chiedere, capire e confrontare.
L’inflazione: il nemico silenzioso che nessuno calcola
Oltre ai costi espliciti e impliciti, esiste un altro fattore che erode il potere d’acquisto dei risparmi ma che raramente viene considerato nelle conversazioni con i consulenti bancari: l’inflazione. Questo fenomeno economico – l’aumento generalizzato dei prezzi di beni e servizi nel tempo – riduce il valore reale del denaro. Un euro di oggi compra meno di un euro di dieci anni fa, e comprerà ancora meno tra dieci anni.
Quando si valuta un investimento, ciò che conta davvero non è il rendimento nominale (la percentuale di crescita del capitale in termini assoluti) ma il rendimento reale, cioè il rendimento al netto dell’inflazione. Se un investimento rende il 3% annuo ma l’inflazione è al 2%, il rendimento reale è solo l’1%. Se l’investimento rende il 2% ma l’inflazione è al 3%, si sta effettivamente perdendo potere d’acquisto dell’1% annuo, anche se nominalmente il capitale sta crescendo.
Negli ultimi anni, dopo un lungo periodo di inflazione molto bassa o addirittura negativa (deflazione), l’inflazione è tornata con forza raggiungendo nel 2022-2023 livelli che non si vedevano da decenni (oltre il 10% in alcuni mesi). Anche se successivamente si è ridimensionata, resta significativamente più alta rispetto al recente passato. Questo ha ripercussioni drammatiche per chi tiene i risparmi in strumenti a basso rendimento.
Consideriamo un risparmiatore che ha investito 100.000 euro in un fondo obbligazionario della propria banca con rendimento netto del 1,5% annuo (già al netto delle commissioni di gestione). Se l’inflazione media è del 3% annuo, dopo 10 anni il capitale sarà cresciuto nominalmente a circa 116.000 euro. Sembra un guadagno di 16.000 euro. Ma in termini di potere d’acquisto, quei 116.000 euro varranno come circa 86.000 euro di oggi (applicando l’inflazione cumulata). Il risparmiatore ha quindi perso circa 14.000 euro di potere d’acquisto reale pur avendo nominalmente guadagnato. Ha lavorato, risparmiato, investito, sopportato vincoli e rischi, per ritrovarsi più povero.
L’alternativa: consulenza finanziaria indipendente e consapevolezza
Di fronte a questa situazione, cresce la consapevolezza tra i risparmiatori più informati che esistono alternative al modello bancario tradizionale per gestire i propri investimenti. La consulenza finanziaria indipendente rappresenta un modello diverso, basato su principi che tutelano maggiormente gli interessi del cliente.
I consulenti finanziari indipendenti non sono dipendenti o legati a banche, reti di promotori, compagnie assicurative. Non hanno prodotti propri da vendere, non ricevono retrocessioni (parte delle commissioni di gestione) dai prodotti che consigliano, non hanno obiettivi commerciali legati a specifici strumenti. Il loro compenso deriva esclusivamente dalle parcelle che i clienti pagano per la consulenza, in modo trasparente e concordato. Questa struttura di compenso elimina o riduce drasticamente i conflitti di interesse.
Il consulente indipendente può esplorare l’intero universo investibile senza vincoli. Può confrontare migliaia di fondi di decine di società diverse, può consigliare ETF a basso costo invece di fondi attivi costosi quando appropriato, può costruire portafogli diversificati ottimizzando il rapporto costi/benefici. Non è costretto a proporre i prodotti della casa madre anche quando non sono i migliori. Può dire “no” quando un prodotto bancario è inadeguato o troppo costoso, senza pressioni aziendali.
La relazione è trasparente: il cliente sa esattamente quanto paga per la consulenza (parcella oraria, fee annuale fissa), può confrontare questi costi con i benefici ricevuti, può cambiare consulente se non soddisfatto. Non ci sono commissioni nascoste, retrocessioni occulte, interessi non dichiarati. Questo modello si sta diffondendo progressivamente anche in Italia, seguendo tendenze già consolidate in Paesi anglosassoni e del Nord Europa dove la consulenza indipendente è norma.
Investire i soldi in banca con consapevolezza e spirito critico
Ma al di là della scelta tra banca tradizionale e consulente indipendente, ciò che ogni risparmiatore dovrebbe sviluppare è maggiore consapevolezza e spirito critico. Non delegare passivamente le decisioni finanziarie ma informarsi, capire, confrontare. Prima di sottoscrivere qualsiasi prodotto, chiedere esplicitamente: quali sono TUTTI i costi, espressi in percentuale annua totale? Qual è il rendimento netto atteso dopo tutti i costi e al netto dell’inflazione stimata? Quali alternative esistono con costi inferiori? Perché mi state proponendo questo specifico prodotto invece di altri?
Confrontare sistematicamente le proposte della propria banca con quelle di consulenti indipendenti, anche solo richiedendo una seconda opinione, è esercizio di prudenza che può far risparmiare decine di migliaia di euro nel lungo periodo. I soldi risparmiati sulle commissioni non vanno alla banca ma restano nel portafoglio del risparmiatore, composti nel tempo, generando ricchezza reale.
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