La banana è il nuovo frutto tropicale della Sicilia

Finalmente i caschi diventeranno un’abitudine anche in Sicilia. Quelli di banane.
Mettiamo da parte i banali cliché e occupiamoci dei banani che arrivano nel cuore del Mediterraneo dopo essere stati il simbolo di tutte le difficoltà della frutta tropicale.
Chiquita, l’azienda multinazionale con sede in Svizzera, che insieme a Del Monte e Dole rappresenta uno dei maggiori rivenditori mondiali di banane, ha annunciato che dal 2026 i suoi frutti saranno coltivati anche in Sicilia, in collaborazione con la cooperativa Alba Bio, con l’obiettivo di avviare la produzione di banane italiane. Una sfida agricola che unisce innovazione e marketing, ma che inevitabilmente riapre la discussione sulla storia – non sempre piacevole – di questo frutto.
Secondo i dati di Altromercato, le banane sono coltivate in circa 150 Paesi, attestandosi tra «i frutti più commercializzati e il quinto prodotto agricolo più venduto al mondo». In Italia, gli ultimi dati Ismea disponibili attestano un’importazione di circa seicentomila tonnellate all’anno per un consumo di circa sessanta banane pro capite all’anno. Ma esiste anche una produzione interna.
Quella della banana in Sicilia, infatti, non è una novità assoluta, già qualche agricoltore visionario, nel 2012, aveva dedicato ettari di terra alle prime coltivazioni, come nel caso della cooperativa Valle dell’Oreto, nella provincia di Palermo, che tutt’oggi continua con una piccola produzione di banane cercando di fare fronte alle sfide climatiche. Paolo Marcenò, fondatore della cooperativa, racconta come proprio in questi giorni le piogge e il vento hanno compromesso i frutti sulla pianta riducendo la disponibilità per il mercato, una disponibilità sempre ridotta per una pianta che si presenta delicatissima.
I problemi della banana non sono certo limitati alla piccola produzione. La sua filiera ha una lunga storia difficile. Un recente reportage di Internazionale evidenzia come in Costa Rica le lavoratrici siano esposte a pesticidi senza protezione adeguata, come gli standard sociali e ambientali spesso falliscano nel garantire equità e salute, nonostante le certificazioni.
Se in Italia questa coltivazione appare come un esperimento di avanguardia, altrove è stata spesso la regola: estensioni sterminate di bananeti che hanno impoverito la biodiversità e segnato il destino politico di intere nazioni. Oggi la narrazione cambia: non più piantagioni coloniali, ma frutti “made in Sicily”, pronti a intercettare i desideri di un consumatore sempre più attratto dalla promessa di esotico domestico, con coltivazione bio. Così annunciano.
Le prime ventimila piante di banane Chiquita verranno messe a dimora nell’ottobre 2025: banane biologiche, destinate a crescere nei campi siciliani grazie a un clima che si fa sempre più tropicale, segnale evidente del cambiamento climatico. L’azienda parla di sostenibilità, di radicamento nelle comunità locali, di una «nuova stagione» per l’agricoltura mediterranea. Ma le banane, per quanto simbolo di vitalità e freschezza nelle pubblicità, portano con sé una storia complessa fatta di monoculture, sfruttamento e dinamiche geopolitiche che hanno dato origine al termine banana republic.
Il progetto di Chiquita mette in luce due aspetti. Da un lato, l’opportunità di sperimentare nuove colture nel Mediterraneo, ampliando la resilienza agricola e offrendo occasioni economiche a una regione che ha già fatto dell’agricoltura un pilastro identitario. Dall’altro, il rischio che questa bananizzazione del paesaggio riproponga logiche di monocultura e dipendenza da un marchio globale, lontane dalla tradizione agricola policolturale che ha reso la Sicilia unica nel panorama agricolo.
La banana, in fondo, è un frutto perfetto per raccontare le contraddizioni del nostro tempo: simbolo di globalizzazione alimentare, capace di attraversare oceani e di adattarsi a nuove terre, ma anche specchio delle tensioni tra mercato e agricoltura, identità e omologazione.
Che le banane di Chiquita riescano davvero a diventare italiane, lo diranno i campi e i consumatori, speriamo solo non diventino italiani anche i problemi che questa filiera si porta da sempre appresso. Abbiamo ancora tempo per capire di più prima che i primi frutti siano maturi.
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