La capitolazione di YouTube, e la resa delle Big Tech all’autoritarismo di Trump

Ottobre 3, 2025 - 06:00
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La capitolazione di YouTube, e la resa delle Big Tech all’autoritarismo di Trump

YouTube non ha mai pagato così bene nessuno dei suoi creator, altro che targa d’oro per il milione di iscritti. In settimana la principale piattaforma mondiale di condivisione video ha strappato un assegno da 24,5 milioni di dollari. Beneficiario: Donald Trump, il presidente degli Stati Uniti. L’azienda di proprietà di Alphabet (quindi Google) aveva sospeso il suo canale sei giorni dopo la rivolta del 6 gennaio 2021 al Campidoglio. C’era «preoccupazione per un potenziale rischio di violenza in corso». Così Trump aveva fatto causa, e lunedì YouTube ha chiuso i conti pagando. Ventidue milioni finiranno al “Trust for the National Mall”, ufficialmente andranno finanziare parte della costruzione di una nuova sala da ballo alla Casa Bianca da duecento milioni di dollari. Gli altri 2,5 milioni andranno a compagni di battaglia del presidente, come Naomi Wolf e l’American Conservative Union. In pratica, quel ban dell’account si è trasformato in un affare immobiliare di lusso.

Non è la prima volta che una piattaforma paga Trump per chiudere una causa legata al suo ban post-insurrezione. Già lo scorso gennaio Meta aveva firmato un assegno da venticinque milioni di dollari. A febbraio X (ex Twitter) aveva pagato dieci milioni. In totale sono 59,5 milioni di dollari. Poi si aggiungono le cause per diffamazione con Paramount (costata sedici milioni) e Abc (altri quindici milioni). Perfino Amazon ha contribuito ad allungare la lista, con un accordo da quaranta milioni per un documentario su Melania Trump. Non si sa se le cifre basteranno a fermare la furia di un presidente che ha fatto della causa legale uno strumento di governo, ma intanto Trump incassa.

Secondo l’Atlantic, ci sono innumerevoli ragioni per cui queste grandi aziende del settore digitale potrebbero aver scelto di pagare: «Forse l’élite tecnologica è davvero entrata nella manosfera della pillola rossa, o teme la regolamentazione o non vuole perdere contratti governativi». Ci sarebbero buone ragioni per preoccuparsi anche di ritorsioni personali: «L’anno scorso, Trump ha accusato il Ceo di Meta, Mark Zuckerberg, di aver complottato contro di lui nelle elezioni presidenziali del 2020 e ha detto che avrebbe “passato il resto della sua vita in prigione” se lo avesse fatto di nuovo», ricorda ancora l’Atlantic.

A guardarlo da fuori, Trump non sembrerebbe nemmeno così interessato a vincere in tribunale, gli basta spaventare i suoi avversari. Lui vuole solo piegare i colossi privati e costringerli a trattare: conti alla mano, sta ricavando molti soldi, ma a lui chiede solo legittimità politica per i suoi metodi illiberali.

È l’aspetto più oscuro di tutta la faccenda. Nel 2021 YouTube dichiarava al mondo che «l’illegalità e la violenza di Capitol Hill erano l’antitesi della democrazia». Oggi paga diversi milioni di dollari per ammettere che si era trattato di un errore di valutazione. L’assalto alla democrazia passa in cavalleria come un momento di isteria collettiva.

Le aziende che accettano di pagare non fanno altro che legittimare la narrazione trumpiana: chi ha provato a silenziarlo per nascondere i suoi discorsi d’odio oggi si piega alla censura del movimento Maga. Perché è vero, per un colosso come Alphabet 24,5 milioni di dollari sono noccioline – nel solo secondo trimestre del 2025, YouTube ha incassato 9,7 miliardi di dollari in pubblicità – ma questa non è una storia di soldi, questa è una storia di politica e democrazia. Si paga per garantirsi rapporti sereni con la Casa Bianca.

Era uno scenario già evidente dall’insediamento di Trump, il 20 gennaio scorso. In prima fila c’erano Sundar Pichai di Google, Mark Zuckerberg di Meta, Elon Musk di X e Jeff Bezos di Amazon, arrivati ossequiosi a Washington per corteggiare il presidente, pronti ad accettare di tutto.

Sono finiti i tempi in cui le menti della Silicon Valley e del mondo digitale erano giovani, ribelli e progressisti. Quelli che Giuliano da Empoli nel suo ultimo libro, “L’ora dei predatori”, definisce «simpatici nerd un po’ Asperger che promettevano un futuro di fraternità universale». Adesso i signori del digitale guidano aziende con un enorme potere politico e sono ossequiosi più che mai verso un presidente che se potesse li porterebbe letteralmente al guinzaglio.

La svolta è anche culturale. Nel 2021, quando i social avevano preso posizione contro l’odio dell’estrema destra americana, volevano dire al mondo che si sarebbero presi la responsabilità delle conseguenze di ciò che accadeva sulle loro piattaforme. Zuckerberg disse che voleva fare la sua parte «per garantire l’integrità delle elezioni», e secondo Twitter i post di Trump «probabilmente avrebbero ispirato altri atti violenti». Invece adesso si è concretizzato «l’allineamento più profondo tra Silicon Valley e movimento Maga», come scrive Charlie Warzel sull’Atlantic: «C’è un vantaggio reciproco. Trump ottiene validazione e strumenti di propaganda. Le Big Tech ottengono immunità, minori controlli, meno rischi legali e accesso diretto al cuore del potere. Entrambi ottengono ciò che vogliono: più potere, meno responsabilità». È un matrimonio di convenienza, cinico ma funzionale. Almeno in questo matrimonio si danzerà nella nuova sala da ballo della Casa Bianca.

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