La comunicazione ambientale responsabile non è lavoro per eroi solitari

Dicembre 15, 2025 - 11:00
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La comunicazione ambientale responsabile non è lavoro per eroi solitari

Chi cerca un manuale di comunicazione ambientale, qui ha sbagliato strada. Lo ammette lo stesso Stefano Martello, autore de Prima della Grande fuga. La comunicazione ambientale responsabile al tempo della multiformità, appena pubblicato per i tipi di Pacini Editore: : questo libro è «perfettamente inutile sul versante manualistico».

Per il “come si fa” esistono già cornici condivise, come la Carta di Pescasseroli, cioè le Linee guida per la consapevolezza ambientale nella professione giornalistica: un documento approvato dall’Ordine dei giornalisti che richiama quattro capisaldi (accuratezza, equilibrio, proattività, responsabilità) da dipanare.

Eppure, proprio perché non è un abbecedario, Prima della grande fuga serve. Eccome. È utile sul versante dell’approccio all’esperienza comunicativa, che oggi «rischia di rimanere eccessivamente veloce, e per questo trasandata». Il punto non è aggiungere tecniche: è recuperare un timbro, uno stile, una postura professionale capace di reggere la complessità (scienza, ambiente, politica, società) senza ridurla a slogan.

Per farlo, Martello sceglie un espediente narrativo che è anche una dichiarazione di metodo: La grande fuga, film-cult “anagraficamente” trasversale, pensato per parlare a Baby boomers, generazione X e Millennials. La struttura è lineare: ogni capitolo ricostruisce un segmento dell’evasione e nel mezzo qualche traccia fantasma da scoprire, talvolta sotto forma – quella a pag 57, ad esempio – di gancio per nuove esplorazioni.

Per chi non ricordasse la trama – tratta da una storia vera, del resto il libro parla di comunicazione, mica di fiction –, siamo al marzo 1944, nel campo di concentramento Stalag Luft III: il maggiore Roger Bushell coordina gli ultimi preparativi per un’evasione di massa da 200 uomini, pianificata da mesi, con documenti falsi, bussole, mappe e “storie di copertura” cucite addosso a ciascuno. Ma, tra ritardi e imprevisti, la fuga viene chiusa a 87; i tedeschi scoprono l’evasione, scatta la caccia all’uomo e la rappresaglia è spietata. A prima vista, una morale costruttiva non si vede: alla fine quasi tutti muoiono. E invece.

La prima lezione – forse la più controcorrente, in tempi di comunicazione “performativa” – è di temperamento. La personalità ideale di una comunicazione responsabile, scrive Martello, è «lenta, meditativa, poco incline all’azione machista». Non è lavoro per eroi solitari. La fuga di Bushell – come un progetto di comunicazione – non sta in piedi per carisma, ma per architettura organizzativa, scambio continuo, capacità di delega e cura delle competenze, soprattutto relazione con le “risorse interne” fatta di ascolto attivo.

Seconda lezione: la comunicazione neutrale non esiste. Nella comunicazione e soprattutto nel giornalismo la neutralità – intesa come volontaria estraneità dalle posizioni del dibattito – può essere una scelta legittima e persino comoda nel breve periodo. Ma non può reggere se l’obiettivo è “sedimentare un patrimonio valoriale”, come è il caso lampante del giornalismo ecologista, per natura militante. Attenzione: non con «interventismo… disordinato e sguaiato», bensì con una posizione che nasce da «analisi serrata e consapevole», argomentata pubblicamente e «legittimata da dati e informazioni». È un passaggio decisivo anche per chi scrive: la trasparenza verso i lettori non è fingere assenza di punto di vista, ma esplicitarlo e renderlo verificabile. E saper governare intese e antagonismi senza sacrificare autorevolezza.

Terza lezione: guardare oltre la contingenza. Qualcuno ha letto La grande fuga come un inno all’arroganza di Bushell: troppo vicina alla fine della guerra, troppo costosa, solo tre avieri arrivati davvero in salvo. Ma Martello insiste: se si allarga l’inquadratura agli obiettivi di guerra, l’azione è «utile, ben pianificata ed estremamente efficace», perché costringe la macchina nazista a spostare risorse, tempo, uomini, «milioni di ore di lavoro».

È qui che il libro offre anche una lente d’osservazione per il presente della lotta alla crisi climatica. A dieci anni esatti dall’Accordo di Parigi, le emissioni di CO₂ hanno toccato nuovi record, e il mondo oggi non è sulla traiettoria giusta per contenere l’aumento di temperatura rispetto all’epoca pre-industriale “ben al di sotto dei 2°C”. Ma gli sforzi non sono stati vani, affatto. Le temperature a fine secolo sono oggi proiettate verso +2,8-3,1°C, ma questo significa che, almeno, stiamo riuscendo a evitare gli scenari catastrofici ancora in campo fino a pochi anni fa, che vedevano proiezioni di temperatura fino a +5,7°C a fine secolo negli scenari a emissioni molto alte. Possiamo permetterci di gettare la spugna? Per rispondere con le parole del Segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, dopo la fallimentare Cop sul clima conclusasi da poche settimane a Belém: «La Cop30 è finita, il nostro lavoro no. A chi ha marciato e negoziato: non arrendetevi». Bushell sarebbe d’accordo, ghignando beffardo.

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