La macchina della gogna digitale e il rischio di una società senza empatia

«Non giudicare mai nessuno, perché di nessuno saprai mai la vera storia». È una frase che sembra ovvia, quasi banale, eppure è una delle più trascurate nel nostro vivere quotidiano. Siamo immersi in una società che alimenta il giudizio rapido, la condanna istantanea, l’etichetta affrettata. Basta un gesto fuori posto, una parola mal interpretata o un errore ingigantito, e subito la macchina del giudizio si mette in moto.
Il fenomeno è antico, ma oggi ha assunto proporzioni nuove. I social network hanno amplificato a dismisura la tendenza a emettere verdetti, spesso senza appello. Ogni utente diventa giudice e giuria, ogni episodio viene trasformato in un processo pubblico. Eppure, dietro quelle immagini, quei titoli, quelle frasi decontestualizzate, rimane sempre invisibile la parte più vera e fragile: la storia personale di chi viene esposto.
La cronaca è piena di esempi. Una foto rubata, un video di pochi secondi, un titolo di giornale possono distruggere in poche ore la reputazione di una persona. Ma chi può davvero conoscere tutto il percorso che l’ha portata fin lì? Le difficoltà, le cadute, i condizionamenti, i traumi, i silenzi che nessuno ha mai raccontato? Ogni vita è un romanzo complesso, e pretendere di ridurla a un giudizio è un’operazione tanto arrogante quanto ingiusta.
Non giudicare non significa rinunciare a distinguere tra giusto e sbagliato, né sottrarsi alla responsabilità civile o morale. Significa piuttosto riconoscere i limiti del nostro sguardo. Come ricordava Socrate, la vera saggezza inizia con l’ammissione della propria ignoranza. E come ammonisce il Vangelo: «Non giudicate, per non essere giudicati». Due ammonimenti distanti secoli, ma accomunati dalla stessa consapevolezza: non possediamo mai l’intero quadro.
Il giudizio, quando diventa condanna, ha un effetto devastante: cristallizza la persona in un errore, la inchioda a una colpa, le nega la possibilità di cambiare. Ma l’essere umano non è mai statico: è un processo, un divenire, una capacità di rialzarsi. Giudicare equivale spesso a negare questa dimensione vitale.
E allora forse la vera alternativa è l’empatia. Non significa giustificare tutto, ma provare a guardare oltre. Domandarsi: quale storia non conosco? Quale fatica non vedo? Quale dolore non si manifesta? È un esercizio difficile, quasi controculturale, ma indispensabile se vogliamo ricostruire un tessuto sociale meno aggressivo e più umano.
Viviamo in un tempo che ha bisogno di meno sentenze e più comprensione. Meno indici puntati e più mani tese. Non si tratta di buonismo, ma di realismo: dietro ogni volto che incontriamo c’è una trama invisibile che ci sfugge. Rispettarla significa non solo salvaguardare l’altro, ma anche difendere noi stessi dal rischio di un giorno ritrovarci, a ruoli invertiti, sotto il fuoco di un giudizio che non ci rappresenta.
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