La posizione di Salvini sull’Ucraina non è diversa da quella di Meloni e Tajani

Uno dei cliché più diffusi sulla stampa italiana a proposito della guerra all’Ucraina è quello di contrapporre la posizione di Matteo Salvini a quella di Giorgia Meloni. Si enfatizza l’isolamento del primo e il protagonismo della seconda, con un entusiastico apprezzamento per la capacità del capo dell’esecutivo di barcamenarsi tra l’omaggio all’inquilino della Casa Bianca e la solidarietà con la coalition of the willing europea, che già una volta – dopo l’agguato di Washington, di cui fu vittima Volodymyr Zelensky – ha impedito a Donald Trump di sbrigare la pratica della pace concordando con Vladimir Putin la spoliazione dell’Ucraina.
In un ecosistema politico-mediatico in cui la rappresentazione è ormai ampiamente in grado non solo di occultare o distorcere la realtà, ma anche di surrogarla e quindi di trasformare la comunicazione di massa in un meccanismo privilegiato di alienazione cognitiva e obnubilamento politico, non stupisce che la posizione di Salvini e quella di Meloni appaiano contrapposte, anche quando sono sostanzialmente coincidenti, come dimostra proprio l’ennesima polemica tra Italia e Francia, dopo l’ennesimo sberleffo di Capitan Papeete al presidente francese Emmanuel Macron.
La posizione che ha espresso con modi inurbani il vicepresidente Salvini è esattamente quella ripetuta più volte, con migliore educazione, da tutti gli altri esponenti del governo, a partire dalla presidente Meloni, dal ministro degli Esteri Antonio Tajani, dal ministro della Difesa Guido Crosetto e dal ministro degli Affari europei Tommaso Foti.
Le garanzie di sicurezza che occorrerà prestare all’Ucraina e che l’Italia negozierà con i partner internazionali escludono l’impegno delle forze militari italiane e secondo quando prevede il lodo Meloni – cioè l’estensione dell’articolo 5 del Trattato Nato all’Ucraina, senza l’ingresso del paese nell’Alleanza – dovrebbero escludere anche il dispiegamento di forze di altri Paesi del blocco euro-atlantico.
L’Italia, a differenza degli altri Paesi “volenterosi”, immagina che la pace possa materializzarsi solo con un disimpegno dal fronte ucraino e con la rassicurazione della Russia attraverso un arretramento del sistema difensivo atlantico, che durante questi tre anni ha contribuito alla resistenza di Kyjiv. Il presupposto su cui si fonda questa strategia – poco importa se perseguita dai diversi attori della maggioranza in buona fede o sotto ricatto di Mosca – è che l’estensione dell’articolo 5 della Nato sarebbe possibile proprio perché nei fatti inutile, nel momento in cui Mosca si dichiarasse soddisfatta dalle parziali conquiste territoriali e della smilitarizzazione de facto dell’Ucraina.
Non mi pare che sia neppure il caso di spiegare quanto vana e scema sia la speranza che la Russia possa fermarsi nel momento in cui il mondo intero le riconoscesse il guadagno di non essersi fermata, prima di violare in modo clamoroso la legalità internazionale e abbandonasse l’Ucraina alla sua mercé, con un messaggio sinistro per tutti gli altri Paesi usciti dall’orbita di Mosca dopo la fine dell’impero sovietico, di cui ora Putin vuole di fatto ripristinare i confini.
In ogni caso, mentre la stampa perbene e presuntamente adulta dell’Italia discute di quanto sia filoucraina Giorgia e quanto sia rimasto filorusso Matteo (per i giornali di Antonio Angelucci e Maurizio Belpietro invece sono ganzissimi entrambi, nella divisione del lavoro dell’esecutivo sovranista), la posizione dell’Italia sull’Ucraina rimane quella dissimulatamente pacifista, a cui in modo sboccato ha dato voce Salvini, che infatti non viene smentito, semmai rimbrottato per il linguaggio scurrile e anti-diplomatico.
Il vantaggio per il governo italiano è che non si è ancora arrivati al redde rationem e che è ancora possibile galleggiare retoricamente in una inesistente terra di mezzo tra l’uomo di Mosca con sede a Washington e i Paesi euro-atlantici alleati dell’Ucraina. Ma se e quando ci si arriverà – il ballon d’essai di Anchorage ha dimostrato quanto sia vacua l’idea di fare una trattativa diplomatica con Putin e di cavarne un risultato decente – bisognerà scegliere da che parte stare e se la posizione del Governo non cambiasse, la parte in cui si schiererà sarà quella dell’appeasement.
Non c’è dubbio che Meloni sia stata in questi anni molto abile a tenersi alla larga dalle retoriche pro russe, ad assicurare (il minimo sindacale degli) aiuti militari, finanziari e umanitari all’Ucraina (11,3 miliardi dall’inizio della guerra a fine giugno 2025, una media di circa tre miliardi all’anno, pari allo 0,15 per cento del Pil) e a non isolare l’Italia in una posizione esplicitamente collaborazionistica, come quella ungherese. Ci sono anche pochi dubbi che un governo campo-larghista avrebbe fatto, da tutti i punti di vista, di peggio.
Conta certamente anche il fatto che nella politica italiana non ci sia nessun partito, a parte Azione di Carlo Calenda, che chieda a Meloni di riconoscere quella ucraina come la vera frontiera di sicurezza nazionale ed europea, e di schierarsi con quel primo nucleo di difesa continentale che si sta costituendo con Regno Unito, Francia, Germania e Polonia proprio a partire dal sostegno alla resistenza ucraina.
Ma concesse tutte le attenuanti e le esimenti per Meloni, che ha ben pochi incentivi nazionali a una condotta diversa, come si fa a non vedere che sulle cose che contano, sugli impegni e le solidarietà reali, la posizione di Palazzo Chigi e della Farnesina e quella del segretario della Lega sono praticamente identiche e che il comodo equivoco sulla loro opposizione fa solo il gioco delle ambiguità dell’esecutivo?
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