Il cappellino sudato del tennista, e la religione della fama che nutre la fama

Scusate se anche oggi, come non dico ogni giorno ma ogni settimana più volte a settimana, sono qui a comunicarvi che state mancando il punto, ma: anche nello scandaletto con cui vi siete baloccati negli ultimi giorni d’agosto, anche nel commentare quello avete mancato il punto.
È infatti accaduto che un tennista polacco che non avevo mai sentito nominare e che mi sembra impossibile da scrivere senza refusi, Kamil Majchrzak, sia dopo una partita agli US Open andato verso gli spalti, abbia firmato autografi con la poca attenzione con cui i famosi accondiscendono alla disperazione di chi chiede autografi, mentre firmava abbia visto davanti a sé un bambino, si sia tolto dalla testa il cappellino e gliel’abbia allungato.
Mentre lui già aveva finito il decimo di secondo d’attenzione riservato al bambino ed era tornato a firmare, il bambino non ha potuto afferrare l’oggetto del desiderio perché, lesto come uno scippatore, il cappellino l’aveva preso un adulto grande e grosso che l’aveva prontamente infilato nella borsa della moglie la quale, imbecille come solo gli adulti di questo secolo, gli aveva subito chiesto di mettersi in posa per un autoscatto di coppia da probabilmente intitolare «Semplicemente noi».
Naturalmente il tutto è stato filmato dalle telecamere puntate sulla schiena del tennista, e naturalmente l’internet si è applicata col troppo zelo che mette in tutto, si tratti di condividere foto di barche a remi vuote convinta siano quelle che stanno andando a Gaza o di identificare due che fanno le corna ai coniugi durante un concerto.
Poche ore e lo scippatore di cappellino era identificato, e a sua volta – non si è mai imbecilli da un solo lato: le polemiche di questo secolo sono caratterizzate dall’implacabilità con cui tutti hanno sempre torto – minacciava cause per diffamazione e metteva su il tono di chi aveva dato una lezione al bambino che non era stato abbastanza forte o veloce o furbo da assicurarsi il cappellino.
Intanto il tennista incontrava il bambino per riempirlo di regali, perché all’internet piacciono il lieto fine e la giustizia riparativa, e poiché queste cose non si riescono mai a ottenere sugli argomenti seri ci accontentiamo di risolvere il grave scandalo umanitario del bambino privato del gadget usato del tennista.
Tutto è bene quel che finisce bene? No, perché il punto non è che il bambino era il debole che andava difeso dall’adulto prepotente. Non è neanche l’internet che decide di punire l’adulto lasciando recensioni negative sulla sua pagina aziendale (il tizio che ci ha fatti per due giorni sentire migliori è l’amministratore delegato di Drogbruk, che se capisco bene è roba di edilizia, ma non ne sono certa giacché, per la quantità di giustizieri in circolazione, hanno dovuto persino rendere irraggiungibile il sito). Non è neppure la deputata polacca che scrive su Twitter (o come si chiama ora) che l’imprenditoria polacca ci metterà anni a riprendersi da questo danno d’immagine. Il punto è: cosa diamine ci fa un adulto benestante con un cappellino sudato di sudore altrui?
Prima e dopo il cappellino arrubbato, avevo passato un po’ di tempo a guardare con un certo interesse le immagini dal festival del cinema di Venezia. In particolare c’era un assedio in cerca di autografi e foto a Pierfrancesco Favino che mi aveva fatto pensare: nessuno di questi ha mai visto un minuto del lavoro di Favino. La fama che nutre la fama, molto più di quanto la nutrano le opere, è un fenomeno che esiste da parecchio, ma fino a questi ultimi anni non era l’unica via alla fama.
Trent’anni fa, quando abbiamo tutti – Favino, io, persino Julia Roberts – cominciato a lavorare, esistevano già quelli che erano famosi solo perché erano famosi, ma erano una minoranza. Valerio Mastandrea cominciò da famoso per la fama: andava al “Maurizio Costanzo Show”, che era il luogo in cui in Italia quel tipo di fenomenologia si sviluppava. In Inghilterra c’era Tara Palmer-Tomkinson, che nessuno sapeva che lavoro facesse ma era su tutti i giornali. In America c’era stata Edie Sedgwick, che nessuno sapeva che lavoro facesse ma addirittura Bob Dylan aveva scritto una canzone su di lei.
Poi il mondo ha fatto il percorso inverso a quello che ha fatto Mastandrea, e adesso esiste solo la fama e non le opere: il pubblico di Venezia, il pubblico lì per gli autografi e le foto e i cappellini sudati, non è in grado di distinguere tra Favino e Kim Kardashian, perché la riconoscibilità è un Grande Indifferenziato, non importa se sei Annamaria Franzoni o Stefania Sandrelli. Favino si ostina a fare i film, e andare al cinema è passato da intrattenimento popolare ad attività intellettualmente troppo impegnativa per gente abituata a scrollare il telefono.
Quando, durante il tappeto rosso prima della proiezione del film di Guadagnino, la gente allunga a Julia Roberts il pressbook (i fogli con cui, prima di internet, un film veniva sintetizzato ai giornalisti: roba che adesso esiste solo ai festival) di “Pretty Woman” da autografare, il messaggio è: sei famosa da quando si diventava famosi per le opere e non per la fama.
Quando, durante una qualche altra apparizione pubblica, il pubblico da dietro le transenne allunga a Favino il pressbook di “Maria” (il film di Pablo Larraín con cui Favino era a Venezia l’anno scorso), il messaggio è: vengo qui tutti gli anni, di film non ne vedo neanche uno ma gli autografi li porto a casa tutti.
La domanda è: per farsene cosa? L’unico fine sano di mente, nel volere il cimelio famoso, mi pare sia rivenderselo, e magari vale per Venezia (anche se, vista la velocità con cui nei pochi secondi di tappeto rosso ’sti poveri famosi devono smaltire decine di autografi, sono più segni a caso che vere firme: chissà se su eBay le comprano comunque). Ma l’amministratore delegato polacco, col cappellino sudato, mica ci dovrà arrotondare.
Vuole metterselo? Vuole tenerlo in una teca, sudario della religione della fama da conservare come reliquia? È una delle differenze che mi colpiscono nel povero polacco odiato dall’internet intera per non aver calcolato che ormai qualunque scemenza viene ripresa da telecamere e amplificata e usata da noialtri per distrarci dai nostri guai.
L’altra è che però lui la partita l’aveva guardata. Non vedo l’ora di vedere il film di Guadagnino da quando mi hanno detto che, all’uscita dalle proiezioni stampa, a Venezia i commenti erano «eh però troppo parlato, troppo Foucault, ho fatto fatica a seguire»: se, per troppi dialoghi e non abbastanza esplosioni, hai fatto fatica te, amico critico cinematografico, pensa la ragazzina che vuole l’autografo di Julia Roberts con che sinapsi andrà mai al cinema.
Quindi lo sport è rimasto l’ultimo luogo in cui la fama e l’opera viaggiano insieme. In cui prima di chiederti il cappellino sudato ho guardato la partita. No, anche i concerti. Ho in effetti visto gente aspettare il cantante, fuori dal concerto, fino a notte fonda, per farsi autografare un braccio, autografo che poi si sarebbero fatti tatuare. Mi sono chiesta, di questi che vivono la fama alla vecchia maniera – consumano l’opera, sia essa partita o concerto, prima di procurarsi la reliquia del contatto col famoso – la stessa cosa che mi chiedo senza sapermi rispondere del polacco dell’ultimo scandalo: ma poi della reliquia cosa te ne fai?
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