La riforma Nordio non separa le carriere, ma riduce l’autonomia della magistratura

Novembre 1, 2025 - 14:30
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La riforma Nordio non separa le carriere, ma riduce l’autonomia della magistratura

Ogni mattina un avvocato penalista si alza e sa che dovrà correre, oltre che per i soliti affanni, per evitare due domande: Garlasco e la separazione delle carriere. Su Garlasco (il peggior spot mai trasmesso contro l’avvocatura italiana, cialtrona e inaffidabile) si è già dato (e temo si darà). Sull’altro tema è il caso di fare alcune puntualizzazioni con spirito laico e rifuggendo dai fantasmi delle reciproche radicalizzazioni tra garantisti e manettari.

Innanzitutto, la definizione di «separazione delle carriere» è un’etichetta truffa: non si separa niente; la vera, appropriata definizione è «la riforma del Consiglio Superiore della Magistratura», articolata in due punti: duplicazione degli organismi e scelta per sorteggio dei membri togati. In più, vi è l’istituzione di un’Alta Corte di Giustizia, quale giudice disciplinare svincolato dal Consiglio.

Pubblici ministeri e giudici continueranno a essere colleghi, e qualcuno spiegherà a Italo Bocchino che continueranno a darsi del tu e andare a cena insieme. Sono stati costituiti due distinti consigli per ciascun ramo di magistratura, nella speranza di spezzare la presunta influenza che i procuratori hanno esercitato sino a oggi votando per le carriere direttive dei giudici.

Ho provato a chiedere, senza successo, a dei colleghi di indicarmi un importante processo degli ultimi vent’anni, nel post-Berlusconi, in cui tale condizionamento ha influito. Se c’è mai stato, ha sicuramente funzionato malissimo in processi come Mafia Capitale, la trattativa Stato-Mafia, il Nigeriagate, i processi alla famiglia di Matteo Renzi e a Matteo Salvini.

Financo la definitiva condanna a Stasi, con imperdonabile ritardo, verrà revocata – per non parlare del caso del pastore Zuncheddu. Resta qualche altra vergogna, a dire il vero, ma si spera di porvi rimedio. La sensazione, semmai, è che il problema sia piuttosto il cuore di tenebra della provincia giudiziaria italiana, come Garlasco dimostra: la vischiosa contiguità della piccola città, la promiscuità di frequentazioni e conoscenze, che favorisce la corruzione endemica, e che con la separazione delle carriere nulla ha a che fare. Certo, il trend degli ultimi anni non conforta la teoria dei ristoranti in cui si attovagliano pm e giudici insieme. Dunque, certi entusiasmi per la duplicazione dei Csm sembrano eccessivi.

Altra cosa è invece il vero cuore della riforma: il tentativo di annichilimento delle correnti di sinistra della magistratura tramite l’abrogazione dell’elettorato attivo delle toghe nella scelta dei propri rappresentanti al Consiglio.
Come noto, mentre i membri laici saranno scelti con sorteggio secondario in un gruppo di prescelti dal Parlamento, per i magistrati esso sarà puro: si tirerà a sorte tra le migliaia di toghe, non importa se iscritti all’Anm o meno. La speranza, neanche nascosta, è che arrivino in Csm e Corte soggetti che non siano espressione delle correnti di sinistra. Magistratura Indipendente, la corrente di destra cui è iscritto – con ruoli in passato di grande responsabilità – il sottosegretario Mantovano, invece, non ha mai costituito un problema.

Il profilo del sorteggio è stato, in un primo tempo, incredibilmente sottovalutato sia dai magistrati che dai sostenitori della riforma. Addirittura le camere penali, che pure avevano proposto con iniziativa popolare il progetto del doppio Csm, avevano preso le distanze dal sorteggio, e un illustre esponente dell’associazione come Giandomenico Caiazza, oggi presidente del Comitato elettorale per il sì, aveva espresso dissenso, salvo cambiare idea all’ultima curva prima dell’avvio della campagna referendaria. Oggi ci si rende conto che il vero cuore della riforma è qui, non nel vessillo delle tavole separate tra pm e giudici.

C’è chi denuncia nel progetto la lesione del diritto di rappresentanza politica in danno dei magistrati, cui si oppone dalla controparte l’obiezione che il Csm non è un organo elettivo e rappresentativo della volontà popolare e che, come in una qualsiasi authority o consiglio di amministrazione di una partecipata, si può procedere con autonomi criteri di designazione.

Sul punto soccorre un bel saggio di qualche anno fa del professor Paolo Alvazzi del Frate, che ha ricostruito la storia del Csm. Il 16 settembre 1958 fu emanato il dpr 916 istitutivo del Csm ma, come sottolineato da giuristi come Alessandro Pizzorusso, il legislatore repubblicano, allargando l’interpretazione delle norme costituzionali, limitò di molto il principio dell’auto-governo della magistratura, garantendo l’esercizio di una sorta di controllo dell’esecutivo, grazie alla rilevanza delle funzioni del ministro della Giustizia all’interno del Csm e «la preponderanza dei magistrati di cassazione, di orientamento più conservatore e quindi ideologicamente affini alla politica governativa, nell’ambito della componente togata del Csm».

La svolta si realizzò cinque anni dopo il varo della legge, allorché la Corte costituzionale emanò la sentenza numero 168 del 12 dicembre 1963, con cui dichiarò l’incostituzionalità dell’art. 11, primo comma, della legge del 24 marzo 1958 («Nelle materie indicate al n. 1 dell’art. 10 il Consiglio superiore delibera su richiesta del ministro di Grazia e Giustizia»), che negava al Csm il potere d’iniziativa in materia di «assunzioni, assegnazioni di sedi e di funzioni, trasferimenti e promozioni e su ogni altro provvedimento sullo stato dei magistrati», per attribuirlo al solo ministro della Giustizia.

Il Consiglio, a seguito della sentenza della Corte, acquistava una effettiva indipendenza e autonomia dall’esecutivo. Come rilevava Luigi Daga, la sentenza «rendeva necessaria una revisione di tutto il sistema della disciplina del Csm». Il legislatore, con la legge 18 dicembre 1967, n. 1198, modificò la legge del 1958 e riformò il sistema elettorale, attribuendo a tutti i magistrati l’elettorato attivo per tutti i componenti togati, quale fosse la loro categoria di appartenenza.

Dunque, la Corte costituzionale ha stabilito una precisa connessione tra la funzione del Csm come organismo di garanzia dell’autonomia della magistratura e il diritto all’elettorato attivo. Non v’è dubbio che la riforma Nordio rischi di riportare la situazione a prima del 1963, assicurando una sorta di primazia alla componente politica, espressione compatta della maggioranza parlamentare e dunque del governo.

Si tratta di un punto estremamente delicato: come l’esperienza delle autocrazie elettive, oggi in piena espansione, insegna, forme di controllo sulla magistratura e sugli organi di garanzia possono esercitarsi in forma strisciante (si guardi al consiglio superiore ungherese oppure al self-restraint della Corte federale americana sotto Donald Trump). Non dice nulla l’inconsulta, per non dire sgangherata, reazione del governo alle osservazioni della Corte dei conti sul progetto del ponte di Messina? Cosa c’entrano i tecnici magistrati contabili con l’Anm e le correnti di sinistra? Sarà mica che il problema sia la diversa opinione dei controllori di legalità?

E ancora: siamo sicuri che non sarebbero state più efficaci le norme che avessero ridotto la presenza dei magistrati fuori ruolo presso il ministero della Giustizia, la riforma dei criteri di assegnazione degli incarichi direttivi – vera causa della degenerazione mercantile delle nomine – oppure perché non ricorrere al sorteggio temperato nell’ambito di prescelti tramite elezioni, come avviene per i membri laici?

Il dilemma per l’elettore riformista è forte e non agevole da sciogliere: col solito fiuto, Matteo Renzi, astenendosi, ha dato un’indicazione. In primavera anche i voti mancanti degli eredi dello scrivano Bartleby del racconto di Herman Melville («Grazie, ma preferirei di no») conteranno.

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