L’altra Hiroshima: un’epopea ucronica tra amore, guerra e sopravvivenza

Agosto 23, 2025 - 06:00
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L’altra Hiroshima: un’epopea ucronica tra amore, guerra e sopravvivenza

Il maggiore Edward T. Houseman uscì dalla sua baracca, un tendone militare all’incrocio tra la 8th Avenue e la 125th Street nel quartiere della Columbia University, e si avviò lungo la carreggiata di corallo frantumato in direzione di Times Square. Erano le undici di sera, e stava sorgendo una mezza luna che tingeva l’isola di un grigio bluastro. Costeggiò una fila di capanni Quonset alla sua sinistra, alle spalle dei quali si allungavano chilometri di piste di atterraggio per i B-29. Alla sua destra c’erano il mare e la sua spiaggia preferita. Più avanti ancora, il punto più alto dell’isola, una collina nota come Monte Laso, dove i soldati giapponesi che erano stati abbandonati si nascondevano ancora nelle grotte. Uno di loro poteva essere là fuori nell’oscurità anche in quel momento, alla ricerca di cibo o di un americano da attaccare. Uno svago popolare tra i militari era quello di preparare un pasto, caricare i fucili e andare a caccia di soldati giapponesi.

Il maggiore girò a destra sulla Broadway. Quando, in giugno, era arrivato a Tinian con il 509° gruppo composito, aveva riso alla vista di tutti quei cartelli stradali in stile newyorkese. Erano stati un’idea di qualche burlone del Corpo Ingegneri: Tinian aveva la forma di Manhattan, quindi avevano battezzato le strade di conseguenza. Questo accadeva quando Houseman era un membro come un altro della squadra del 509°, nient’altro che un ingranaggio nel meccanismo. 

Non si sentiva più così. E i toponimi non lo divertivano più. L’incontro all’ospedale della base avvenuto poche ore prima gli aveva scaricato sulle spalle quello che sembrava il peso del mondo intero. Si era svolto al capezzale del comandante del 509°, il colonnello Paul Tibbets. Era presente anche il generale di brigata Thomas Farrell, vice del generale Leslie Groves, capo del progetto Manhattan. Insieme avevano comunicato a Houseman tutto ciò che doveva sapere, a partire dall’informazione custodita nel massimo segreto: l’arma che il 509° si era addestrato per sei mesi a sganciare era una bomba capace di sprigionare il potere dell’atomo. Qualunque cosa significasse.

«Questa è un’enormità, Eddie» aveva scandito Tibbets con la voce rauca. «A quanto mi è stato detto, la forza distruttiva è pari a…» fece una pausa per deglutire dolorosamente, «… pari a ventimila tonnellate di TNT.» Houseman non avrebbe mai dimenticato la scena, con Tibbets che pronunciava quelle parole dal letto di ospedale. Com’era possibile che dei minuscoli atomi provocassero un’esplosione pari a ventimila tonnellate di TNT? E poi, che aspetto avevano ventimila tonnellate di TNT?

Un mucchio grande come una casa? No, probabilmente più grande, più simile a un piccolo condominio. Un giorno, quando tutto questo fosse finito, avrebbe intrattenuto sua moglie Marion e suo figlio Charlie con quella storia da brividi.

«Allora, Eddie.» Tibbets allungò una mano calda e umida, sorridendo per nascondere la delusione che, ne era certo, Houseman stava provando. «Sembra che tu sia l’uomo che porrà fine alla guerra. Ma non sentirti sotto pressione, okay?»

«Grazie, colonnello» rispose Houseman con un sorriso. «È proprio quello che mi ci voleva!»

La gobba scura del circolo ricreativo emerse dall’oscurità. Era un capanno Quonset color oliva come tutti gli altri, ma si erano sforzati di farlo assomigliare un po’ di più ai locali che c’erano in patria: erano stati piantati arbusti e un accenno di prato, e sul davanti era stata eretta un’insegna che lo definiva TINIAN TAVERN. Quando non scorrevano fiumi di birra, lì si tenevano i briefing. All’esterno erano di piantone due guardie armate, immobili al chiaro di luna mentre Houseman saliva i gradini. Gli equipaggi erano già riuniti all’interno e, quando Houseman entrò e andò a mettersi di fronte a tutti i presenti, si levò un mormorio.

«Bene, ascoltate.» Houseman assunse il tono da battaglia, quando la disciplina prende il sopravvento. «Il colonnello Tibbets è stato ricoverato in ospedale oggi. Non chiedetemi il motivo, perché non posso rivelarlo. Ma mi hanno detto che si riprenderà, quindi non c’è da preoccuparsi. Ripeto: il colonnello si rimetterà. Nel frattempo…»

Fece una pausa, guardandosi intorno e osservando le espressioni intense degli uomini. «Nel frattempo, andiamo avanti con la missione. Il meteo dovrebbe volgere al bello e, se non ne approfittiamo, rischieremo di perdere un’intera settimana. Quindi si parte stasera. Questi sono gli ordini. Il Gimmick è stato trasferito sul Wicked Intent.»

Il Gimmick, ovvero lo stratagemma. Houseman lanciò un’occhiata allo specialista in armamenti che era stato appena assegnato alla sua squadra, un comandante della Marina degli Stati Uniti dallo sguardo glaciale di nome Samuel Filson. Erano gli unici due uomini presenti a conoscere la natura dell’arma. Per tutti gli altri era ancora un mistero, chiamato “Gadget” o “Gimmick”, appunto. Ma il suo equipaggio lo avrebbe scoperto presto.

Houseman li avrebbe informati durante il viaggio verso il Giappone, e non vedeva l’ora. “Bene, ragazzi” avrebbe detto, “sembra proprio che oggi divideremo gli atomi”. Poi li avrebbe sbalorditi con la storia delle ventimila tonnellate di TNT.

Fece l’occhiolino ai membri dell’equipaggio del Wicked Intent, gli uomini con i quali si era addestrato negli ultimi sei mesi, arrivando al punto di poter sganciare un Gimmick con la massima precisione. C’erano il suo copilota John Morris, un mago del poker; il navigatore “Billy” Boys, orgoglioso possessore della bocca più sboccata dell’aviazione; il mitragliere di coda “Pappy” de Gerald, con nella guancia la perenne cicca di tabacco da masticare che sputava in una tazza; l’ingegnere di volo “Hickey” Hicks; e il bombardiere “Cy” O’Neill, ideatore del furto di vestiti sulla spiaggia che li aveva fatti sbellicare dalle risate.

«Questo significa che tocca a noi, ragazzi» concluse. «Saremo noi a trasportare quell’affare.»

Houseman si voltò verso la mappa appuntata sulla lavagna alle sue spalle e prese a spiegare. «Bene. L’obiettivo primario è Hiroshima. Il secondo è Kokura. Il terzo, Nagasaki.» Poi si rivolse agli equipaggi dei tre B-29 che avrebbero preceduto la squadra d’attacco per comunicare via radio le condizioni di visibilità. «Decollo a zero-uno-trenta. Usate i codici meteo sulla carta blu.

Niente voli in formazione. Restate distanziati. Conoscete la procedura. Squadra d’attacco. Andiamo a zerodue-quarantacinque e procediamo verso Iwo. Dopo il rendez-vous, prua trecentoventisette gradi, altitudine trentunomila piedi».

Daikon Cover

Daikon, Samuel Hawley, Silvio Berlusconi Editore, pp.468, 22 euro

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