L’inesorabile declino degli iscritti ai sindacati

Ottobre 7, 2025 - 01:30
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L’inesorabile declino degli iscritti ai sindacati

Nei giorni in cui si è discusso e polemizzato sullo sciopero generale per Gaza, l’Ocse ha pubblicato un nuovo studio sull’adesione dei lavoratori ai sindacati e sulla copertura dei contratti collettivi nazionali nei Paesi più industrializzati. E i dati sugli iscritti mostrano un crollo delle tessere (quasi) ovunque.

Cosa è successo? La densità sindacale media si è dimezzata passando dal 30 per cento del 1985 al 15 per cento del 2024. Mentre invece l’adesione delle aziende alle organizzazioni datoriali è rimasta stabile: la quota di dipendenti del settore privato che lavorano in imprese affiliate a un’organizzazione datoriale è scesa solo di poco, passando dal 59 per cento degli anni Ottanta a circa il 55 per cento di oggi.

Ovviamente si tratta di medie. Per cui a un opposto ci sono Paesi ad altissima sindacalizzazione come Svezia e Danimarca, al 60 per cento, e l’Islanda, che tocca addirittura il 90 per cento. Mentre all’altro opposto abbiamo il 4,7 per cento in Colombia, 5,6 per cento in Estonia e 7,4 per cento in Ungheria.

Durante la pandemia sembrerebbe esserci stato un aumento degli iscritti. Ma in realtà si tratta solo di un’illusione ottica – spiega l’Ocse – dovuta a un “effetto composizione”: in pratica, le percentuali sono cresciute solo perché sono stati persi più posti di lavoro tra i lavoratori non iscritti ai sindacati.

Chi sono quindi oggi i pochi rimasti con la tessera del sindacato in tasca?

L’Ocse fa notare anzitutto che non ci sono grosse differenze di genere: le donne iscritte al sindacato nel 2024 erano al 14,2 per cento, contro il 14,9 per cento degli uomini.

La vera differenza la fa invece lavorare nel settore pubblico o in quello privato: nel pubblico il 41,3 per cento dei dipendenti è iscritto al sindacato, rispetto al 10,1 per cento del settore privato. Sembrerebbe quindi che i sindacati stiano via via scomparendo dal mondo delle imprese un po’ ovunque.

Quello che conta poi sarebbe anche la funzione svolta dai sindacati nella vita pratica dei lavoratori. Nel 2024, infatti, il tasso di iscrizione ai sindacati era superiore o vicino al 50 per cento solo nei Paesi in cui le indennità di disoccupazione sono gestite da istituzioni affiliate ai sindacati – è il cosiddetto “Ghent System” di Danimarca, Finlandia, Islanda e Svezia. Tuttavia, fa notare l’Ocse, anche questo sistema è sempre più messo in discussione ed eroso dallo sviluppo di fondi assicurativi privati che offrono un’assicurazione contro la disoccupazione senza richiedere l’iscrizione ai sindacati.

Ma non è solo una questione di tessere.

La conseguenza diretta del declino della densità sindacale è la diminuzione della copertura della contrattazione collettiva. La quota di lavoratori i cui salari e condizioni sono regolati da un contratto collettivo è scesa dal 47 per cento del 1985 al 33,5 per cento del 2024.

I sindacati, certo, negoziano e firmano accordi collettivi che nella maggior parte dei Paesi si applicano poi a tutti i lavoratori, indipendentemente dalla loro iscrizione o meno a un sindacato. E in effetti, in tutti i Paesi, a eccezione di Grecia e Messico, la quota di lavoratori coperti da un contratto collettivo è superiore a quella dei lavoratori sindacalizzati. Eppure, nonostante questo, la copertura della negoziazione collettiva è sempre più bassa.

E ora arriviamo all’Italia.

Il nostro Paese compare ai primi posti dell’Ocse sia per densità sindacale, che sarebbe diminuita di pochissimo negli ultimi trent’anni, sia per i livelli di copertura della contrattazione collettiva. Quindi? Tutto bene? Tutt’altro, come sappiamo.

Il primo problema è che i dati Ocse sul tasso di sindacalizzazione italiano sarebbero notoriamente sovrastimati. La fonte dei tesseramenti italiani sono infatti i sindacati stessi, che si autocertificano gli iscritti. Sono quindi numeri non verificabili. E infatti, non appena si usano dati indipendenti, la realtà appare ben diversa.

Uno studio condotto da tre ricercatori – tra cui l’italiano Paolo Santini per la Copenaghen Business School – ha analizzato gli iscritti ai sindacati in sette Paesi europei, mostrando come dai primi anni Duemila una divergenza evidente tra il numero degli iscritti al sindacato dichiarati da Cgil, Cisl e Uil e il numero di quelli che nei sondaggi si dichiarano iscritti a una sigla sindacale. Nei dati forniti dai sindacati siamo intorno al 32-33 per cento di sindacalizzazione, nei sondaggi ci si ferma al 22-25 per cento. Parliamo di quasi dieci punti di differenza. Negli altri Paesi analizzati dallo studio danese il dato è allineato ai sondaggi, in Italia no.

Stesso problema riguarda la copertura della contrattazione collettiva, che in Italia sfiora il cento per cento. Ma, come scrive l’Ocse, un elevato livello di copertura contrattuale non indica necessariamente un sistema di contrattazione solido. E, anzi, che «un’elevata copertura può mascherare un sistema frammentato, un limitato potere contrattuale sindacale o un numero significativo di accordi scaduti i cui termini sono ancora formalmente validi».

La fotografia dell’Italia, insomma. Dove la contrattazione collettiva formalmente ha una copertura alta, ma di fatto ha smesso di funzionare da tempo e avrebbe bisogno di una revisione, tra la proliferazione dei contratti pirata e l’incapacità dei Ccnl di tutelare il potere d’acquisto dei lavoratori negli anni dell’inflazione.

Intanto, mentre i sindacati sono spaccati tra chi è pro e chi è contro il governo e si fanno strada i sindacati di base, senza che se ne parli troppo è stata approvata la legge delega sul “trattamento economico complessivo minimo”. Di fatto, è la legge contro il salario minimo, che ancora una volta solo sulla contrattazione collettiva per risolvere la questione salariale, nonostante l’evidente fallimento degli ultimi anni anni. Che poi è proprio quello che chiedeva il sindacato più in sintonia con il governo.

 

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