Marzia, il tritacarne virale, e la scontata commedia del dolore

Agosto 27, 2025 - 01:30
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Marzia, il tritacarne virale, e la scontata commedia del dolore

Una delle leggende metropolitane che girano sul successo di “Parthenope”, l’ultimo film di Paolo Sorrentino, dice che è stato almeno in parte dovuto alla viralità, su TikTok, della canzone di Cocciante messa nella colonna sonora, quella che dice la frase che, sapendo leggere, si potrebbe dire sfogliando ormai i tre quarti dei giornali pubblicati e del loro stracco andare a rimorchio della viralità: era già tutto previsto.

Era già tutto previsto, nel caso di Marzia della quale non farò il cognome, perché miro alla medaglietta di adulta meno imbecille della settimana, facile da ottenere in una settimana di adulti così imbecilli che, per cavarne quattordici clic, non esitano a condannare una ventitreenne a ritrovarsi indicizzata a vita con la scemenza che fece a ventitré anni. Gli stessi adulti che ogni giorno ringraziano che le scemenze dei ventitré anni loro siano dimenticate anche dai loro parenti.

Era già tutto previsto, per la povera Marzia, da quando il suo video TikTok, non ancora particolarmente diffuso, mi è apparso in un tweet di Repubblica (prometto di non far notare un giorno sì e uno no che la distrazione di massa del momento parte dalla disperazione dei giornalisti di Repubblica, che pur di riempire pagine ci metterebbero anche le scimmie di mare; in cambio, Repubblica potrebbe promettermi di non elevare a notizia proprio qualunque stronzata).

Per fortuna nella vita di Marzia c’è un adulto disposto a fare la fatica di far l’adulto, qualcuno che a un certo punto di domenica le suggerisce di rendere private le sue pagine Instagram e TikTok, perché va bene che la viralità è bella, la viralità è remunerativa, la viralità è un ottimo sostituto al trovarsi un lavoro vero, ma stava andando come ampiamente prevedibile da quando, sabato, il suo siparietto era stato rilanciato da Repubblica e da tutti gli altri.

I fatti, se beati voi non guardate i social (o quella loro succursale che sono i giornali: Repubblica domenica aveva un’intera pagina d’intervista a Marzia; se mi ricordo che una volta era un giornale che si dava un tono, mi metto a piangere).

Di Marzia so quel che ha detto lei stessa (le notizie non le verificano i giornalisti, non penserete lo faccia io): ventitré anni, siciliana, aspirante attrice, vive a Roma, e giovedì va in ospedale perché ha mal di testa. In ospedale le fanno una tac. Prima della quale qualcuno – quello che lei nel video definisce medico, ma qualunque adulto sa che il medico non sta lì in quel momento, e nell’intervista Marzia specifica non fosse neppure il tecnico della tac – le dice di levarsi l’anello al naso perché i metalli eccetera eccetera: tutto ciò che gli adulti si spera già sappiano.

Marzia dice che chiede se debba sfilarsi il reggiseno col ferretto, e che questo tizio (per esclusione: un infermiere o quella variazione chiamata operatore socio sanitario, distinzioni che importano moltissimo a chi lavora in ospedale e per niente al resto del mondo) le dice di no perché la tac gliela faranno solo al cranio; poi, dice, il tizio aggiunge: certo, se te lo vuoi levare noi siamo contenti. È un infermiere romano, il punto più basso nella scala evolutiva, ma Marzia vede, nella scatolina delle carte “imprevisti” del Monopoli, che fuori posto c’è la carta “probabilità”. Quindi fa ciò che farebbero probabilmente in tante tra quelle abbastanza sfortunate da avere vent’anni in questo secolo.

In questo secolo in cui gli adulti non ti hanno insegnato che certo che esistono le gerarchie dei traumi, e certo che una battuta fuori luogo non vale quanto uno stupro. In questo secolo in cui gli adulti, se reagisci da ventenne, non ti dicono mai mai mai «Guarda che poi è peggio», perché a loro non interessa salvarti da te stessa: a loro interessa che tu non pensi che sono, santo cielo, dei boomer. «È vero quello che senti», ha scritto ieri Concita De Gregorio, che per fortuna non ha figlie femmine, assecondando la determinazione delle ventenni a vivere il mondo come trauma.

Marzia va nel cesso dell’ospedale, con addosso ancora le pecette cui attaccare gli elettrodi dell’elettrocardiogramma, e piange al telefono. Piange di fronte alla telecamera del telefono dicendo che deve denunciare questa cosa gravissima che le è successa.

Avessi vent’anni nel secolo in cui li ha Marzia forse anch’io, in una città in cui tutte sono aspiranti attrici, in un mondo in cui non hai alcuna speranza di distinguerti per bellezza o talento, penserei che così avrò un quarto d’ora di notorietà, e finalmente ai casting potrò portare ciò che il sistema completamente ubriaco ormai richiede: i follower. Solo che era già tutto previsto.

Sabato Marzia ripostava entusiasta nelle storie di Instagram la rassegna stampa, i giornali che l’avevano ripresa, la gente che le scriveva non necessariamente cose carine, il suo improvviso esistere in un’economia dell’attenzione in cui è durissima farsi notare. Nessun adulto, nella sua vita, la avvisava che era già tutto previsto.

Che i detrattori avrebbero aperto i suoi social e non sarebbe stato necessario giornalismo investigativo o uno spirito d’osservazione particolarmente acuto, perché il penultimo TikTok era di nuovo Marzia che piangeva, scrivendo che era un’attrice e che piangeva spesso da quando si era accorta che piangere la rendeva particolarmente fotogenica. Che sul suo Instagram avrebbero trovato foto di lei senza mutande, di lei con delle banconote infilate nel reggiseno, persino una bio con scritto «non ho peli sulla lingua, e se li ho non sono miei» (chissà che battute sofisticate e che foto da collegiali raccontano i voi ventitreenni, invece).

E che a quel punto i difensori avrebbero detto che la vittima perfetta non esiste, che non è che perché una posta delle foto discinte allora la violenza è giustificata (usano «violenza» perché, in quel favoloso lascito del MeToo che è l’azzeramento delle gerarchie dei traumi, una battuta fessa sotto al neon e in mezzo ad altri è pari a puntarti un coltello alla gola in un vicolo buio). Che Marzia ha fatto bene ad accendersi la telecamera del telefono in faccia provando a cambiare le cose, perché la loro traduzione di «siparietto esibizionista» è «rivoluzione», perché la regola che sull’internet chi ti difende è sempre più scemo di chi ti attacca non sbaglia mai.

Quando Marzia infine si decide a rendere privati i suoi social, ormai è tardi. Abbiamo tutti avuto modo di spiare l’inconsapevolezza d’una ragazza che mette il reggiseno persino meno spesso di me: l’elemento di commedia è che tutto questo minuetto utile agli opposti posizionamenti social discenda, a giudicare dai video in cui Marzia balla, chiacchiera, si trucca, dall’unica giornata in cui Marzia s’era sacrificata alla scomodità d’un reggiseno. Se l’infermiere romano non fosse così basso nella scala evolutiva, invece di fare battute cretine sarebbe andato a guardarsi il TikTok di Marzia: quel niente – una canotta senza reggiseno, sai che pornografia – che ambiva a vedere stava già lì, filmato dalle angolazioni giuste per il suo diletto.

Certo, poi completezza di ricognizione ingiunge di dar conto anche di coloro che dell’infermiere si preoccupano, della sua reputazione, della sua vita, chissà se l’ha detto davvero o se la ragazza lo sta rovinando per capriccio. Ma nessuno sta rovinando nessuno. A parte chi provvede a rovinarsi da sola, come Repubblica, questo minuetto in cui Marzia parla con automatismi da ventenne di «normalizzare» e di «victim blaming», in cui l’infermiere passa per il solito porco, in cui l’internet corre a prendere cuoricini coi posizionamenti rispetto alla vicenda, questo minuetto, è già previsto, verrà archiviato alla prossima puttanata che possa farci giocare ai piccoli moralizzatori.

Formate due file ben ordinate, voialtri che quando qualcuno s’accende la telecamera davanti alla faccia pensate a come prendervi un pezzettino di riflettore. Di qua si stacca il numeretto se si vuol fare la morale alla ragazza, che di certo vuol rovinare un povero padre di famiglia e si vede che è una poco di buono. Di là il numeretto se si vuol fare la morale a lui, raccapricciante emanazione del patriarcato sistemico per il quale chiedere come minimo il 41 bis. Venghino siori venghino al grande circo delle polemiche social, solo per oggi, domani ne arriva un’altra. 

Di Marzia, ovviamente, non frega niente a nessuno, ce la saremo dimenticata tra un attimo, e lei chissà da grande cosa penserà della sé che dice a Repubblica «ho letto frasi tremende» riferendo alcuni blandissimi commenti, sgranando gli occhioni di fronte alle previstissime dinamiche della prima volta che diventi famosa nel secolo in cui la fama è così svalutata. Che rischia d’essere l’unica volta in cui Marzia sarà famosa, e che tra cinquant’anni i nipoti non le chiedano di parlar loro del suo Nastro d’argento ma della volta in cui aveva messo il reggiseno e incontrò un cafone.
Era già tutto previsto, perché i detrattori e i fissati e gli smaniosi di svelare la verità sono un portato della fama. Non è vero che l’internet ci ha resi più aggressivi: siamo di più sul pianeta, e sono quindi molti di più gli imbecilli e gli psicopatici (due categorie spesso coincidenti), e l’internet li ha resi solo più visibili. Ma quella che non è più uguale a prima è la fama.

Sharon Stone racconta che, quando diventò quella di “Basic Instinct”, Sylvester Stallone le disse che da allora in poi non avrebbe mai più saputo se uno sconosciuto che si dirigeva verso di lei per strada lo facesse per chiederle un autografo o per spararle. Funziona ancora così, solo che in cambio di quell’inferno che è la fama non hai più i vantaggi: non sei più una diva del cinema, non sei più la donna più bella del mondo, non hai più le ville o i viaggi o l’opportunità di conoscere gente pazzesca.

Resti una studentessa fuori sede con la tinta dei capelli fatta in casa, le cui immagini più note sono quelle in un gabinetto pubblico, le cui altre immagini hanno per sfondo pensili di fòrmica, che ha pensato di poter diventare una star del cinema con la sola forza della dolenza in primo piano, in un secolo in cui la dolenza in primo piano è persino più inflazionata della celebrità. Povera Marzia, cui nessun adulto s’è preso la briga di dire che non ne sarebbe valsa la pena.

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