Netanyahu resta al potere perché l’alternativa non ha leader né strategia

Immense manifestazioni con due milioni di israeliani in piazza e uno sciopero generale riuscito contro il governo indicano al mondo che è dissennata ogni punizione di Israele, perché c’è un’enorme sua parte che si oppone alle feroci politiche di Bibi Netanyahu.
C’è un grande, maggioritari, altro Israele che chiede la fine immediata della guerra, che si dissocia dalle azioni militari disumane messe in atto a Gaza, che in altri tempi sarebbe stata aiutata, apprezzata, esaltata da una sinistra internazionale che invece, sconsideratamente, Partito democratico compreso, fa l’occhiolino a un antisemitismo d’ambiente che ormai dilaga.
Ma, per il meccanismo perverso delle regole democratiche, quest’altro Israele non riesce a imporsi. Inutilmente, da più di un anno, tutti i sondaggi danno seccamente sconfitto Netanyahu in una chiamata anticipata alle urne e danno addirittura fuori dal Parlamento, a causa dei suoi pochi voti, quel Bezalel Smotrich che del governo ha la golden share insieme a Itamar Ben-Gvir e che teorizza, e pratica, la pulizia etnica dei palestinesi in Cisgiordania e a Gaza.
Netanyahu si è confermato abilissimo nell’evitare ogni crisi di governo e quindi le elezioni anticipate, applicando una strategia cinica e netta: ha spostato sempre più verso la destra estrema e suprematista l’asse dell’esecutivo, compresa la dissennata chiusura per mesi e mesi degli aiuti alimentari a Gaza con conseguente carestia. Compreso, oggi, il rifiuto di una tregua di sessanta giorni, secondo le condizioni suggerite da Steve Witkoff, l’inviato di Donald Trump, ora accettata da Hamas, le cui condizioni Israele aveva pienamente accettato un mese fa, in cambio di dieci ostaggi vivi e diciotto ostaggi morti. Un rifiuto che si inserisce nella palese volontà di rendere impossibile la vita ai gazani e favorire la loro fuga in altri paesi arabi (che infatti il governo israeliano sta contattando, scegliendo tra i più dissestati: la Libia, il Somaliland, il Sud Sudan).
Di fatto, così facendo, Netanyahu distrugge l’immagine di Israele nel mondo, lede l’onore dello Stato degli ebrei e procura un danno irreparabile all’intera, fino a ieri gloriosa, storia del sionismo.
In questo desolante quadro, va detto, conta molto l’assenza di una forte leadership all’interno della pur maggioritaria opposizione a Netanyahu e ai suoi sconci alleati. Né Yair Lapid, né Benny Gantz, né Avigdor Lieberman, né Naftali Bennett, che pure è dato da tutti i sondaggi come premier di una coalizione anti-Netanyahu nettamente vincente, ha la caratura di un grande leader in grado di dare una scossa al paese. In realtà, sono tutti personaggi politici di seconda fascia, dotati di carisma insufficiente e per di più molto divisi tra di loro.
Sono passati quasi due anni dal pogrom del 7 ottobre, due anni di una guerra ad Hamas la cui conduzione è stata da loro nettamente criticata, eppure non sono ancora in grado di costituire una forte coalizione di partiti che si sappia presentare al paese come alternativa alla destra estrema che governa.
In questo panorama di mediocre cabotaggio delle opposizioni, si impone così da sedici anni un Netanyahu che invece ha un forte carisma, è un oratore avvolgente, sa cogliere la pancia del paese e soprattutto è scandalosamente privo di scrupoli.
Dunque, è prevedibile che almeno per i prossimi mesi non vi saranno elezioni anticipate in Israele, che il governo Netanyahu proseguirà la sua rotta dissennata, che potrà probabilmente essere interrotta solo da un possibile esito disastroso della guerra di Gaza.
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