Robot nelle case di cura: il Regno Unito e la sfida dell’assistenza del futuro

Novembre 4, 2025 - 12:01
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Robot nelle case di cura: il Regno Unito e la sfida dell’assistenza del futuro

Nel cuore dell’Inghilterra, dove il welfare è una delle colonne portanti della società moderna, si sta preparando una rivoluzione silenziosa. Mentre la popolazione invecchia e la carenza di personale sanitario si fa ogni anno più grave, il Regno Unito guarda alla tecnologia per immaginare una nuova frontiera dell’assistenza agli anziani: i robot badanti.
Dietro la freddezza del metallo e la precisione dei circuiti, si nasconde la promessa di un futuro in cui macchine e operatori umani potranno collaborare per garantire cure migliori, sicurezza e dignità alle persone più fragili.

Il futuro inizia in un laboratorio di Londra

Non c’è nulla di fantascientifico nella scena che si svolge all’interno di un laboratorio di Shadow Robot Company, a nord di Londra. Su un banco di metallo, una mano artificiale di colore nero muove le dita con la destrezza di un essere umano. Ogni articolazione è controllata da micro-sensori, oltre 100 in totale, che permettono di replicare i movimenti più complessi. È in grado di afferrare oggetti, ruotarli, manipolarli, persino risolvere un cubo di Rubik con una mano sola.

Ma non è un gioco. Il progetto, finanziato dal Robot Dexterity Programme e coordinato dall’Advanced Research and Invention Agency (ARIA), rappresenta una delle scommesse tecnologiche più ambiziose del Regno Unito: creare mani robotiche in grado di compiere gesti precisi e delicati, come aiutare un anziano a prendere un bicchiere o a vestirsi, senza rischiare di fargli male.

L’ingegnere Rich Walker, direttore di Shadow Robot, lo spiega chiaramente alla BBC: “Non stiamo costruendo robot per sostituire gli esseri umani, ma per assisterli. Vogliamo creare macchine che aiutino le persone a vivere meglio.”
L’obiettivo, infatti, non è realizzare androidi perfetti, ma strumenti di supporto domestico e sanitario: braccia meccaniche che possano sollevare una persona fragile, mani che riescano a preparare un pasto o a somministrare medicine.

La ricerca coinvolge 35 aziende partner, università e centri di innovazione. Il laboratorio studia il comportamento di animali e insetti per imitare i loro schemi di movimento e adattarli ai sistemi robotici. Secondo la professoressa Jenny Read, una delle coordinatrici del progetto, “solo osservando la natura possiamo capire come ottenere la destrezza e la leggerezza necessarie per interagire con un essere umano.”

La sfida, dunque, non è solo ingegneristica: è antropologica. Come creare una macchina che sappia muoversi in un ambiente umano senza risultare minacciosa o artificiale? È questa la domanda che guida i ricercatori, consapevoli che la vera innovazione non sta nel costruire robot più intelligenti, ma più empatici e affidabili.

La crisi dell’assistenza: un sistema sotto pressione

Il contesto in cui nasce la sperimentazione dei robot badanti è quello di una crisi strutturale che da anni colpisce il sistema di assistenza britannico. Il Regno Unito è uno dei paesi europei con il tasso di invecchiamento più rapido: secondo l’Office for National Statistics, entro il 2050 una persona su quattro avrà più di 65 anni. Allo stesso tempo, il numero di operatori sociosanitari non cresce abbastanza per rispondere alla domanda crescente di cure a domicilio e nelle case di riposo.

Il rapporto annuale di Skills for Care parla chiaro: nel solo settore dell’assistenza agli adulti in Inghilterra, mancano oltre 131.000 lavoratori, e quasi la metà delle strutture segnala gravi difficoltà nel reclutamento di personale qualificato. A questo si aggiunge un altro dato allarmante: secondo Age UK, più di 2 milioni di persone anziane nel Regno Unito hanno bisogni di cura insoddisfatti.

Questa carenza di risorse umane ha conseguenze dirette sulla qualità dei servizi. Molte strutture, soprattutto nelle aree rurali, faticano a mantenere standard adeguati, e migliaia di anziani vivono in condizioni di isolamento o con assistenza discontinua. Da qui nasce la necessità di trovare soluzioni alternative, sostenibili e scalabili.

Il governo britannico ha risposto con un piano d’investimenti che guarda al futuro: 34 milioni di sterline destinati allo sviluppo di tecnologie di assistenza basate sull’intelligenza artificiale e sulla robotica. L’obiettivo è creare strumenti in grado di affiancare il personale umano, non di sostituirlo, migliorando l’efficienza del sistema e alleggerendo il carico di lavoro degli operatori.

Non è la prima volta che Londra scommette sulla tecnologia per affrontare problemi sociali. Già nel 2019, un documento del Department for Business, Energy and Industrial Strategy affermava che “entro i prossimi 20 anni i sistemi autonomi e robotici saranno una componente naturale della vita quotidiana.” Ma la pandemia di Covid-19 ha accelerato la consapevolezza di quanto il settore dell’assistenza sia fragile: personale ridotto, strutture sotto pressione, risorse economiche limitate.

Oggi la robotica appare non come un lusso, ma come una necessità sociale. L’idea di introdurre macchine nelle case di cura nasce dalla convinzione che un uso intelligente della tecnologia possa potenziare l’elemento umano, permettendo agli operatori di dedicare più tempo al contatto diretto con le persone, delegando ai robot le mansioni ripetitive o fisicamente pesanti.

Come spiega Gopal Ramchurn, professore di Intelligenza Artificiale all’Università di Southampton e CEO della società Responsible AI, “la sfida non è costruire macchine più potenti, ma capire come farle lavorare in modo responsabile accanto a noi”. Il Regno Unito, secondo Ramchurn, ha l’opportunità di diventare leader mondiale nella robotica etica, un campo che unisce tecnologia, diritto e filosofia.

Il modello giapponese: quando la tecnologia incontra la cura

Per comprendere dove può arrivare il Regno Unito nel campo della robotica assistenziale, è utile guardare verso Est. Il Giappone, da oltre un decennio, rappresenta il laboratorio più avanzato al mondo nell’uso dei robot nelle case di cura e nelle strutture sanitarie. Qui la tecnologia è entrata con naturalezza nella vita quotidiana, spesso come risposta a un problema simile a quello britannico: una popolazione sempre più anziana e una carenza cronica di personale umano.

Il dottor James Wright, esperto di intelligenza artificiale e docente presso la Queen Mary University of London, ha trascorso sette mesi in Giappone studiando da vicino i robot impiegati nel settore assistenziale. Il suo lavoro di ricerca ha analizzato tre dei dispositivi più noti:

  • HUG, un robot sviluppato dalla Fuji Corporation, progettato per aiutare gli operatori a sollevare gli anziani dal letto o trasferirli su una sedia a rotelle. Dotato di sensori di pressione e braccia meccaniche rivestite di materiale morbido, è pensato per ridurre gli infortuni del personale sanitario e migliorare la sicurezza dei pazienti.

  • Paro, un robot terapeutico a forma di cucciolo di foca, in grado di emettere suoni e movimenti reattivi al tatto, usato per stimolare l’interazione e ridurre l’ansia nei pazienti affetti da demenza o Alzheimer.

  • Pepper, l’umanoide interattivo di SoftBank Robotics, utilizzato per attività ricreative, lezioni di ginnastica e momenti di socialità nelle case di cura.

Nonostante l’entusiasmo iniziale, i risultati dell’esperimento giapponese sono stati contrastanti. Wright osserva che, in molti casi, i robot si sono rivelati più impegnativi che utili: richiedevano pulizia costante, manutenzione e ricariche frequenti. Inoltre, alcune macchine, come Paro, generavano dipendenza affettiva nei pazienti, creando un legame emotivo difficile da gestire.

Il caso di Pepper è emblematico: la sua voce acuta e i tempi di reazione limitati hanno reso difficile la comunicazione con persone anziane o con deficit uditivi. Molti operatori hanno raccontato di sentirsi frustrati nel dover “accudire il robot” anziché essere aiutati da lui.

Nonostante le difficoltà, il Giappone ha fornito al mondo una lezione preziosa: la tecnologia può sostenere la cura, ma non può sostituire l’empatia. Il Regno Unito, che segue con attenzione l’evoluzione del modello asiatico, intende evitare gli stessi errori, investendo in ricerca etica, formazione e progettazione partecipata.

Il nuovo piano di sviluppo dell’Advanced Research and Invention Agency (ARIA) prevede infatti la creazione di un comitato interdisciplinare composto da ingegneri, medici, psicologi e filosofi, con l’obiettivo di assicurare che i robot di domani siano realmente al servizio delle persone.

Come sottolinea Wright, “la sfida non è far accettare i robot agli anziani, ma renderli davvero degni di fiducia.”

La via britannica alla robotica: destrezza, empatia e prossimità

Mentre il Giappone ha puntato su robot riconoscibili e antropomorfi, il Regno Unito ha scelto una strada diversa. L’approccio britannico alla robotica assistenziale è più funzionale e discreto: invece di creare macchine simili agli esseri umani, la ricerca si concentra su arti meccanici e sistemi modulari, progettati per svolgere compiti specifici con la massima precisione.

È questa la filosofia che guida la Shadow Robot Company, laboratorio londinese che da oltre vent’anni rappresenta un punto di riferimento mondiale nel campo della robotica avanzata.
Nata come start-up indipendente, l’azienda collabora oggi con università e centri di ricerca di tutta Europa, sviluppando mani robotiche dotate di sensibilità tattile e destrezza biomeccanica. Ogni dito è controllato da un sistema di sensori che imita la capacità dei nervi umani di percepire pressione, calore e movimento.

Secondo Rich Walker, direttore di Shadow Robot, l’obiettivo non è creare macchine perfette, ma “costruire robot che sappiano adattarsi alle persone”. Le mani robotiche, in fase di test, sono in grado di manipolare oggetti di varie dimensioni e fragilità, ma anche di apprendere nuovi gesti attraverso sistemi di intelligenza artificiale basati sull’osservazione e sull’esperienza.

La ricerca, finanziata dal Robot Dexterity Programme, fa parte di una rete di progetti gestiti dall’Advanced Research and Invention Agency (ARIA), l’agenzia pubblica fondata nel 2021 per promuovere la scienza ad “alto rischio e alta ricompensa”.
L’obiettivo di ARIA è sostenere team indipendenti che sperimentano soluzioni innovative in settori chiave come la robotica, la sostenibilità e la medicina rigenerativa.

La professoressa Jenny Read, neuroscienziata e leader del progetto, spiega che il lavoro del laboratorio si ispira al principio della biomimetica: studiare i movimenti degli animali e degli esseri umani per riprodurli nei robot con la stessa eleganza ed efficienza. “La mano è la parte più sofisticata del corpo umano, il punto d’incontro tra intelligenza e sensibilità”, racconta. “Se riusciamo a replicarla, possiamo creare un’interfaccia naturale tra la macchina e la persona.”

Questo approccio “human-centric” segna un cambio di paradigma nella robotica britannica.
Non più robot che sostituiscono, ma robot che collaborano: strumenti capaci di assistere operatori umani nelle case di cura, nei centri riabilitativi o nelle abitazioni private. Non a caso, gli esperti del Centre for Robotics and Autonomous Systems dell’University of Southampton sostengono che la chiave del successo risiederà nella fiducia reciproca tra uomo e macchina.

Secondo le proiezioni pubblicate nel report AI and Care 2035, entro la prossima decade i robot di prossimità potrebbero essere presenti in oltre 40% delle strutture assistenziali britanniche, assumendo compiti semplici ma essenziali: portare oggetti, monitorare parametri vitali, ricordare appuntamenti medici o offrire stimoli cognitivi agli anziani soli.

Più che un’invasione tecnologica, si tratta di una nuova alleanza tra intelligenza artificiale e compassione umana, in cui la robotica diventa un’estensione delle nostre capacità di cura, non un loro sostituto.

Etica e regole: chi si prenderà cura dei nostri robot?

Quando si parla di robotica assistenziale, la tecnologia non è l’unica frontiera da esplorare. Dietro i circuiti e i sensori si nasconde una domanda più profonda: che cosa significa “prendersi cura” in un mondo dove la cura è mediata da macchine?

Il professor Gopal Ramchurn, direttore del Centre for Machine Intelligence dell’University of Southampton e fondatore della società Responsible AI, invita da tempo a riflettere sui limiti morali e giuridici dell’automazione nel welfare.
In una conferenza promossa dal UK Parliament’s Science and Technology Committee, Ramchurn ha dichiarato:

“Siamo vicini a una svolta storica. I robot entreranno nelle nostre case, ma dobbiamo essere certi che lavorino per noi, e non il contrario.”

Il rischio, spiega, è che la rapidità dell’innovazione superi la capacità delle istituzioni di regolare il settore. Chi sarà responsabile se un robot commette un errore in una casa di cura? Come garantire la privacy dei pazienti quando le macchine raccolgono dati biometrici e comportamentali in tempo reale? E ancora: fino a che punto è accettabile sostituire l’interazione umana con quella artificiale?

Per rispondere a queste domande, il governo britannico sta elaborando un quadro normativo denominato AI Regulation White Paper, pubblicato nel 2023, che introduce un principio guida: “pro-innovation, pro-human”.
L’approccio prevede che lo sviluppo dell’intelligenza artificiale e della robotica avvenga nel rispetto di cinque pilastri fondamentali: sicurezza, trasparenza, equità, responsabilità e libertà umana.

L’obiettivo è chiaro: garantire che i robot restino strumenti di supporto, mai sostituti del contatto umano.
In questo senso, il Regno Unito si propone come laboratorio internazionale di etica tecnologica, una posizione rafforzata anche dal ruolo dell’Alan Turing Institute, che collabora con il Department for Science, Innovation and Technology (DSIT) per creare standard condivisi sull’uso responsabile dell’AI nella cura.

Un’altra questione riguarda la percezione sociale dei robot.
Le ricerche del British Social Attitudes Survey mostrano che la maggioranza degli inglesi resta diffidente verso l’idea di macchine che svolgono funzioni empatiche o relazionali. Tuttavia, il consenso cresce se si parla di robot come strumenti di supporto o ausili per ridurre la solitudine e migliorare l’autonomia degli anziani.

Non è un caso che molte aziende, come la stessa Shadow Robot, stiano lavorando con designer e psicologi per rendere le macchine più accoglienti, più “umane” nel comportamento e nel linguaggio, adottando colori, movimenti e suoni che ispirano fiducia invece di timore.

In definitiva, il vero banco di prova non sarà tecnico ma etico e culturale: la capacità di costruire una convivenza tra umanità e tecnologia basata sulla responsabilità e sull’empatia reciproca.

Umanità aumentata: la cura nell’era dei robot

Immaginare un futuro in cui un robot aiuti un anziano a vestirsi o gli porga un bicchiere d’acqua può suscitare stupore, timore o curiosità. Ma la direzione è ormai tracciata: il Regno Unito sta costruendo una nuova visione della cura, in cui la tecnologia non sostituisce la relazione umana, ma la amplifica. È il principio fondante della cosiddetta care technology, un insieme di innovazioni digitali e robotiche pensate per migliorare la qualità della vita e rafforzare la connessione sociale.

Le case di cura del futuro non saranno spazi dominati da macchine impersonali, ma ecosistemi intelligenti, dove sensori, assistenti digitali e robot collaboreranno con infermieri, medici e famiglie per garantire un’assistenza più continua e personalizzata.
Già oggi, alcuni prototipi di “companion robots” sono in fase di sperimentazione in diversi distretti del Paese: robot dotati di braccia morbide per il supporto motorio, software di riconoscimento vocale per il monitoraggio delle esigenze quotidiane e sistemi di intelligenza emotiva capaci di interpretare le espressioni del viso o i cambiamenti d’umore.

Secondo un recente studio pubblicato dal Centre for Ageing Better, entro il 2040 la robotica di prossimità potrà ridurre del 20% il carico di lavoro del personale sanitario e garantire una maggiore autonomia a oltre 3 milioni di anziani britannici. Ma la tecnologia, da sola, non basta. Serve una nuova cultura della cura, in cui l’innovazione venga interpretata come alleata della dignità e non come fredda efficienza.

In questo, Londra e il Regno Unito possono diventare un modello globale. Da un lato per la solidità del proprio sistema scientifico e universitario, dall’altro per la sensibilità sociale che da sempre contraddistingue le politiche di welfare britanniche. La sfida dei prossimi anni sarà trovare un equilibrio tra progresso e compassione, tra efficienza e delicatezza.

Come ha dichiarato recentemente la neuroscienziata Jenny Read, “i robot non devono insegnarci a essere più simili a loro; devono aiutarci a riscoprire ciò che di umano abbiamo dimenticato.”

Ed è forse questo il messaggio più profondo della rivoluzione in corso: la tecnologia non cancella la nostra umanità, la riflette e la amplifica. I robot del futuro non sostituiranno il tocco di una mano o il calore di una voce, ma potranno ricordarci quanto questi gesti siano insostituibili.


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