Shomali: «Coloni estremisti agiscono in un clima di quasi totale impunità»
Foto AFP/SIRNegli ultimi anni, ma soprattutto dopo il 7 ottobre 2023, gli attacchi dei coloni israeliani contro i palestinesi nella Cisgiordania occupata sono fortemente aumentati e assumono forme sempre più aggressive: incendi, assalti fisici, danneggiamenti di proprietà, uso di munizioni reali, distruzione di alberi d’ulivo e intimidazioni sistematiche.
In alcuni casi, le violenze collegate ai coloni hanno portato a sfollamenti forzati, con famiglie palestinesi costrette ad abbandonare le loro terre o ad emigrare, mentre l’“espansione degli insediamenti” è accompagnata da una strategia di pressione che rende la presenza palestinese insostenibile. Ne abbiamo parlato con mons. William Shomali, vicario generale del Patriarcato latino di Gerusalemme e vicario patriarcale per Gerusalemme e Palestina.
Quali sono oggi le condizioni di vita dei palestinesi in Cisgiordania, alla luce dell’aumento degli attacchi da parte di gruppi di coloni israeliani?
La domanda coglie una delle dimensioni più critiche e purtroppo meno raccontate del conflitto israelo-palestinese. Le condizioni di vita per i palestinesi in Cisgiordania si sono deteriorate in modo drammatico negli ultimi mesi, toccando livelli di crisi umanitaria e di tensione che non si vedevano da anni. Alla già complessa realtà dell’occupazione militare e della frammentazione del territorio, si è sovrapposta un’ondata di violenza da parte di coloni estremisti che agiscono in un clima di quasi totale impunità. Questi gruppi, spesso armati stanno esercitando una pressione sistematica per rendere insostenibile la vita delle comunità palestinesi, spingendole all’esodo forzato.
Ci sono territori palestinesi maggiormente soggetti a questa pressione dei coloni?
Per quanto riguarda le aree più vulnerabili, la situazione è particolarmente critica in Area C, che costituisce circa il 60% del territorio della Cisgiordania e sotto pieno controllo israeliano. Qui, i piccoli villaggi e le comunità beduine, spesso prive di protezione e servizi di base, sono il bersaglio principale. Zone come la Valle del Giordano, le colline a sud di Hebron e i dintorni di Nablus e Ramallah sono teatri quotidiani di violenze. Tuttavia, è importante sottolineare che la violenza non si limita solo alle zone rurali. Anche le periferie delle città, quelle più vicine agli insediamenti, subiscono incursioni, sassaiole contro auto e case, attacchi che creano un senso di assedio costante.

Quali sono le principali forme di pressione e di violenza messe in atto dai coloni nei confronti dei palestinesi?
Come ho già detto, parliamo di aggressioni e pestaggi, sparatorie per intimidire o ferire. Talvolta, avvengono sotto gli occhi dei soldati che non intervengono. Ci sono poi atti di vandalismo e distruzione di proprietà come case, automobili, serre e stalle per il bestiame che vengono date alle fiamme o demolite. Molto gravi, inoltre, sono il sabotaggio dei pozzi d’acqua, il taglio degli ulivi secolari e il furto o l’avvelenamento del bestiame, azioni che vanno a privare le famiglie del loro sostentamento. Spesso i coloni impediscono ai palestinesi, legittimi proprietari, l’accesso alle loro terre e dunque non permettono loro di coltivarle, di fatto espropriandole. Non mancano in questa triste lista incursioni notturne nei villaggi per seminare il terrore, soprattutto tra donne e bambini. Infine, simboli tristemente frequenti sono le scritte di odio in ebraico sui muri.
Prima parlava del taglio di ulivi secolari. Dal 1° ottobre, l’Ocha, l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari, ha documentato 167 attacchi da parte dei coloni legati alla raccolta delle olive di quest’anno, che hanno colpito 87 comunità palestinesi…
Il tempo della raccolta delle olive si è trasformato in un periodo di ansia e pericolo. Assistiamo a un picco significativo di attacchi in queste settimane. I coloni irrompono negli uliveti per rubare il raccolto, tagliare o dare alle fiamme gli alberi, spesso secolari, che sono il patrimonio e la storia di intere famiglie. È un colpo devastante all’economia familiare. I contadini palestinesi sono costretti a raccogliere le olive sotto la protezione di attivisti internazionali o di volontari israeliani accorsi per salvaguardare l’accesso degli agricoltori alle loro terre e mitigare i rischi associati alla violenza dei coloni e alle restrizioni di movimento.
La comunità cristiana subisce forme specifiche di intimidazione o violenza, oppure vive una condizione simile al resto della popolazione palestinese?
La comunità cristiana palestinese, sebbene piccola numericamente – circa l’1% della popolazione -, condivide il peso e le sofferenze inflitte dall’espansionismo dei coloni. La loro condizione fa parte dell’ampia tragedia palestinese. A riguardo vorrei menzionare le Suore Gianelline di Ortas, villaggio vicino a Betlemme. I coloni hanno occupato una casetta di loro proprietà su una collina vicina, negando loro l’accesso a terre di loro proprietà. Altri esempi sono Taybeh, l’ultimo villaggio interamente cristiano in Cisgiordania, e Aboud dove il Patriarcato Latino ha una parrocchia. Questi luoghi sono circondati da insediamenti israeliani e avamposti di coloni, che ne limitano lo sviluppo naturale e l’accesso.

Da dove trae origine la violenza dei coloni?
La violenza dei coloni è spesso giustificata da un nazionalismo estremista che si mescola a una visione teologica distorta e non fa distinzione tra musulmano e cristiano. Vede tutti i palestinesi come un ostacolo da rimuovere per la sovranità ebraica sull’intera Terra d’Israele. Siamo rimasti soddisfatti quando Steve Witkoff, l’inviato speciale della Casa Bianca per il processo di pace, è venuto a visitare Taybeh. Dopo la visita ha informato il suo governo di quanto accade. Il governo americano ha protestato contro le incursioni dei coloni. Recentemente il presidente israeliano Herzog e il capo dell’Esercito hanno criticato l’estremismo dei coloni. Speriamo che a queste denunce seguano azioni dissuasive.
Questa perdurante situazione, legata all’occupazione israeliana, sta spingendo sempre più palestinesi ad emigrare. Molti di questi sono cristiani. Ma ci sono anche altri fattori concomitanti che, dal suo punto di vista, favoriscono questo esodo?
Uno di questi fattori è certamente lo stallo politico e l’assenza totale di un processo di pace credibile. La prospettiva di un’occupazione a tempo indeterminato, la guerra a Gaza e l’aumento degli attacchi dei coloni in Cisgiordania tolgono ogni speranza nel futuro, specialmente tra i giovani. Poi l’asfissia economica: il tasso di disoccupazione del 50% in Cisgiordania è drammatico. L’occupazione strangola l’economia palestinese con i blocchi alla circolazione di merci e persone, i check point sparsi in tutta la Cisgiordania, il controllo delle risorse e l’impossibilità di accedere a gran parte delle proprie terre rendono difficile, per i palestinesi, costruire un futuro prospero. Aggiungiamo anche il Muro di separazione che rende un calvario semplici azioni, come andare a lavoro, a scuola, dal medico o dai parenti. Per una comunità piccola come quella cristiana che ha forti legami internazionali, l’emigrazione diventa una scelta razionale per sfuggire a questo calvario. E sebbene la convivenza dei cristiani con i musulmani in Palestina sia storicamente solida, il panorama regionale più ampio contribuisce a un senso di vulnerabilità.
Emigrare per sperare di avere un futuro…
Le comunità cristiane palestinesi della diaspora (in Cile, Stati Uniti, Australia) attraggono perché sono molto organizzate e offrono una via di fuga. Ottenere un visto per l’Australia, come è successo ai 30 cristiani di Gaza, non è solo un’opportunità, è un’ancora di salvezza. Dopo aver vissuto l’inferno della guerra, aver visto che non c’è futuro in una Striscia assediata e distrutta, l’offerta di un visto per l’Australia non è una scelta, è l’unica via per la sopravvivenza e per dare un futuro ai propri figli.

Quali passi concreti dovrebbe compiere la comunità internazionale per sostenere la popolazione palestinese in Cisgiordania e impedire le azioni violente dei coloni?
La comunità internazionale si trova di fronte a un bivio: continuare con le dichiarazioni di condanna, ormai inefficaci, o intraprendere azioni concrete e consequenziali. A mio parere bisognerebbe passare dalle parole ai fatti: emettere sanzioni contro i coloni violenti e le loro organizzazioni. I loro nomi sono spesso noti alle Ong e ai servizi di intelligence. Colpire i loro portafogli e la loro libertà di movimento avrebbe un effetto deterrente più forte di qualsiasi comunicato stampa o dichiarazione. Inoltre, avviare indagini per tracciare le fonti di finanziamento, pubbliche e private, che permettono la creazione e il sostentamento degli avamposti coloniali, illegali anche per la legge israeliana. Bisogna assumere una posizione chiara sugli insediamenti e smettere di considerarli solo come un “ostacolo alla pace” e iniziare a definirli per quello che sono secondo il diritto internazionale: colonizzazione di un territorio occupato. Altra misura possibile è aumentare il numero di personale civile internazionale (attivisti, osservatori per i diritti umani, accompagnatori ecumenici) nelle zone a più alto rischio, come la Valle del Giordano. La loro presenza fisica, sebbene non armata, funziona da deterrente contro gli abusi e documenta ciò che accade in tempo reale. A tale riguardo la comunità internazionale deve ribadire con forza che Israele ha l’obbligo legale, sancito dalla Quarta Convenzione di Ginevra, di proteggere tutti i civili sotto il suo controllo militare, palestinesi e israeliani.
Un’ultima domanda: riconoscere lo Stato della Palestina può essere utile alla causa palestinese?
Io credo che rafforzerebbe la legittimità palestinese e riaffermerebbe il consenso internazionale intorno alla soluzione “Due popoli Due Stati”, che l’espansione degli insediamenti sta deliberatamente sabotando.
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