Cuffaro e il partito del “già stato” che tiene in ostaggio la Sicilia

Due Totò hanno quasi monopolizzato un certo immaginario collettivo sulle cose di Sicilia negli ultimi decenni. Uno si chiamava Totò Riina, il “Capo dei Capi”, il boss della guerra stragista allo Stato, il primo volto che ti viene in mente quando pensi alla Sicilia e alla parola “mafia”. L’altro si chiama Totò Cuffaro, che per favoreggiamento aggravato alla mafia è stato condannato, tra l’altro, ma che nonostante tutte le disgrazie e il carcere, è tornato alla carica, ed è sempre lì, il primo volto che ti viene in mente quando pensi alla Sicilia e alla parola “politica”.
Qualche settimana fa, la festa di Radio3, a Bolzano. Tema: il futuro. Lisa Roscioni, storica, in un bellissimo intervento racconta dell’invenzione del futuro, della sua storia. Perché il futuro non è sempre esistito, è un’invenzione moderna. Agli antichi, per esempio, non interessava. L’uomo moderno, invece, ha inventato la costruzione culturale del futuro.
Mentre ascolto questo intervento in podcast, mi arriva il lancio di agenzia: la richiesta di arresto per Totò Cuffaro. In Sicilia, penso, quando hanno inventato il futuro, eravamo distratti.
Sembra non averla mai scoperta, la parola futuro, quest’isola mia, isola dell’eterno ritorno. La cronaca politica e giudiziaria continua a essere monopolizzata da Totò Cuffaro. L’attuale richiesta di arresto per corruzione da parte della Procura di Palermo è la conferma di una fenomenologia che si ripete da un quarto di secolo. Cuffaro non è solo l’uomo al centro della nuova inchiesta; è il perno su cui si regge l’attuale maggioranza di centrodestra in Sicilia, il demiurgo politico che decide le sorti elettorali alla Regione, alle politiche, nell’ultimo dei Comuni.
Nella mia città, Marsala, ad esempio, il candidato sindaco del centrodestra alle prossime elezioni amministrative sarà probabilmente un giovane consigliere comunale, eletto con il centrosinistra. È lui, il nuovo che avanza, per il centrodestra. E chi lo ha proposto agli alleati? Il partito di Cuffaro, naturalmente.
E pensare che la prima volta che Salvatore Cuffaro fu condannato, la sua reazione fu un misto di dignità e disperazione. L’ex Presidente della Regione, noto per il suo soprannome “Vasa Vasa” per l’abitudine di baciare tutti, aveva meditato di lasciare la Sicilia. Ed emigrare addirittura in Burundi «ad accudire i bambini africani». In effetti, uscito dal carcere di Rebibbia, in Africa c’è stato. Ha fatto anche un film sulla sua esperienza lì, con fare da esule che ricorda tanto Antonio Gramsci. Poi è tornato.
È tornato non con la vergogna in volto e gli occhi bassi, da politico condannato (che tra l’altro, per inciso, non ha mai ammesso la responsabilità di quanto fatto, limitandosi a dire di aver «aiutato un amico»), ma da perno della politica siciliana, in nome del vero grande unico solo partito che governa l’isola. Il partito del “già stato”.
E chi è più “già stato” di Cuffaro? Ecco perché è lui, l’uomo del vero potere, pur senza avere un ruolo di governo, perché in realtà i poteri, lui, li ha già avuti tutti.
Il sistema Cuffaro non è una reliquia del passato, ma una realtà ancora pienamente operativa. Si insinua nelle strutture vitali dell’amministrazione regionale, manifestandosi nei Consorzi di bonifica, nell’assegnazione dei bandi dell’Assessorato alla Famiglia e nelle partecipate, come l’Ast (Azienda Siciliana Trasporti). Non si limita più alla sanità – storicamente il terreno di caccia privilegiato della politica – ma si è evoluto in un modello di gestione del potere che si rigenera costantemente. Agisce come un virus, trasformando le aziende pubbliche in appendici di un dominio privato, dove l’economia diventa semplicemente una propaggine della politica.
Tutto già visto, certo, perché tutto “già stato”, come una sorta di motore immobile impastato di vizio antico e abitudine dove tutto – bandi, nomine, appalti, assunzioni – è materia da decidere in un retrobottega.
Nel retrobottega di un negozio di maglieria intima Cuffaro, nel 2003, fu sorpreso a passare informazioni riservate che furono l’inizio dell’inchiesta che poi lo travolse. Nei tanti retrobottega della politica siciliana si muove con disinvoltura, oggi, quest’uomo dall’aspetto pacioso, dal profilo terzomondista, dalle gaffe ingenue (memorabile, un paio di anni fa, la sua gaffe «I have a drink» citando Martin Luther King) che incarna la Sicilia e i siciliani, perché se «la meglio parola è quella che non si dice», il miglior potere, il potere del già stato è quello che ripete i riti antichi delle vasate e delle chiamate in disparte, delle mangiate, e della battuta maliziosa, ed è quello che non si vede.
E siccome il partito è quello del “già stato” la seconda vita di Totò Cuffaro non poteva non incarnarsi nella Democrazia Cristiana, che lui ha ripreso, rivitalizzato e portato ad essere un partito in Sicilia a doppia cifra, facendo incetta di consiglieri comunali in pratica ovunque, decidendo maggioranze e governi, alleandosi con la Lega (alle prossime politiche l’alleanza sarebbe valsa, su scala nazionale, per Salvini, un punto pieno) e conquistando soprattutto i giovani. Ci sono oggi, nel 2025, giovani che deliberatamente si iscrivono alla Dc di Cuffaro. Avete letto bene. Hanno anche una loro squadra di calcio. Anche questo è già stato, che vi pare. Perché il famoso “cambiare tutto per non cambiare nulla” di gattopardiana e abusata memoria nella sua versione completa è: «Affinché tutto rimanga com’è è necessario che tutto cambi». Ma la cosa più tragica è che Tomasi di Lampedusa fa pronunciare questa frase al giovanissimo Tancredi Falconeri non al suo zione, il Principe. Sono i giovani, in pratica, i primi fautori del movimento del “già stato” in Sicilia. Altro che rivoluzione. Sono i giovani, sono vecchi da sempre.
E adesso ci ritroviamo con l’uomo che è passato dal “Vasa Vasa” al carcere, all’aiuto in Burundi alla nuova Dc, e che torna alla ribalta per il meccanismo più radicato della Sicilia: le accuse di corruzione e di malaffare che avvelenano i servizi pubblici essenziali, le trame di pupi e pupari.
In questi giorni ricorre il primo mese dalla scomparsa di Maria Cristina Gallo. Professoressa di Mazara, è morta di tumore per i ritardi di un referto istologico cruciale che le fu consegnato con otto mesi di ritardo. Il tumore, nel frattempo, era già al quarto stadio. La sua denuncia pubblica ha squarciato il velo sulla fragilità della sanità siciliana e sulle vite che non riesce a proteggere.
Le conseguenze di una gestione affaristica della sanità le pagano i malati, le famiglie sull’orlo della povertà, gli agricoltori assetati, i pendolari ostaggi di una viabilità da terzo mondo. Sono loro le vittime del partito del “già stato”.
Renato Schifani, presidente della Regione, anche lui campione del “già stato”, ha risposto alla crisi politico-giudiziaria del suo principale alleato con una certa eleganza: giorni di silenzio, poi, improvvisamente, foglio di via per i due assessori della sua Giunta in quota Cuffaro.
La questione morale risolta a colpi di ascia, in pratica. Come nel famoso passo della Bibbia: «Se la tua mano o il tuo piede ti è occasione di scandalo, taglialo e gettalo via da te». Detto, fatto. La paura del contagio. Ci vorrebbe di nuovo quell’app Immuni per capire allora con chi poter parlare, decidere, governare.
Che poi, non si capisce: gli assessori in quota Cuffaro via, quelli di Fratelli d’Italia, ma indagati, possono restare. Come il presidente dell’Ars, Gaetano Galvagno.
Ah, i rumor dicono che Schifani trama per diventare Presidente della Repubblica. Magari invece vuole diventare Papa e non lo sappiamo.
Non serve cacciare via gli assessori di Cuffaro, chiunque avesse avuto una relazione con lui. Non guarisce così questa Sicilia. Non guarisce così, non si cura con le indagini, non è il rimedio l’opposizione servile che ogni tanto si scopre barricadera quando non viene invitata al banchetto. Non passa tutto con chi grida allo scandalo e all’indignazione. Passa solo Cuffaro, per un po’. Poi ritornerà, sotto altre forme. Todo cambia. Anzi, no. Non passa nulla. Passa solo lo sconcerto, l’imbarazzo. Dura, quanto? Un mesetto? Poi tutto torna come prima, come sempre. Il partito del già stato, nell’isola senza futuro, continuerà a fare vittime.
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