Ex-Ilva, niente piano e cig per 6000. I sindacati dopo l’incontro col governo: «Lavoratori usati per fare cassa»

Le associazioni ambientaliste, pur non partecipando all’incontro, avevano chiesto un piano industriale e finanziario. I sindacati, alla vigilia dell’appuntamento a Roma, avevano chiesto un chiaro programma di reindustrializzazione e garanzie sul piano occupazionale. Ma sul futuro dell’ex Ilva di Taranto il governo non è riuscito a fornire risposte soddisfacenti né alle prime né ai secondi. Ha invece annunciato che dal 15 novembre scatta la cassa integrazione per 5.700 lavoratori – ovvero 1.200 in più di quelli attuali – e che il numero crescerà ulteriormente a 6.000 dal primo gennaio 2026. Cifra di per sé ingente e anche tutt’altro che marginale rispetto all’organico effettivo dello stabilimento siderurgico, che è di 7.938 unità, di cui 5.371 operai, 1.704 quadri e 863 equiparati. E così, dopo tre ore e mezza di discussioni attorno al tavolo con ministri e sindacati, l’incontro a Palazzo Chigi che avrebbe dovuto fornire indicazioni sulla governance dell’impianto, le risorse necessarie per il rilancio, gli obiettivi di decarbonizzazione e le garanzie per la salute di chi lavora e vive a Taranto si è chiuso con l’ennesima, pesante fumata nera.
«Il governo ha presentato di fatto un piano di chiusura», ha detto il segretario generale della Fiom Michele De Palma uscendo da Palazzo Chigi. «Ci sono migliaia di lavoratori che finiscono in cassa integrazione, non c’è un sostegno finanziario al rilancio e alla decarbonizzazione. Abbiamo deciso unitariamente come Fiom, Fim e Uilm di andare dai lavoratori e spiegare che contrasteremo la scelta del governo con tutti gli strumenti possibili».
Per il governo erano presenti all’incontro il ministro delle Imprese e del made in Italy Adolfo Urso, la ministra del Lavoro e delle politiche sociali Marina Calderone e il consigliere per i rapporti con le parti sociali, Stefano Caldoro. Oltre ai rappresentati di Fiom Cgil, Fim-Cisl, Uilm-Uil, Ugl metalmeccanici, Usb e Federmanager, hanno partecipato anche i rappresentanti di Invitalia, i commissari straordinari di Acciaierie d’Italia e i commissari straordinari del Gruppo Ilva. Ma l’ampia e di alto livello partecipazione al tavolo del fronte governativo è stata inversamente proporzionale al contenuto delle risposte e degli impegni giunti dall’esecutivo. «Non c’è nulla, né un piano industriale né altro», è sbottato il segretario generale della Uilm rocco Palombella lasciando Palazzo Chigi. «Hanno parlato di piano 'corto', perché il tempo che rimane prima della chiusura è molto breve. Quindi abbiamo deciso di andare dai lavoratori e spiegare che questo piano non si può discutere o emendare. È un piano inaccettabile perché parte da un presupposto: portare alla chiusura dell’ex Ilva. E noi non vogliamo essere responsabili di questo. Finora li abbiamo seguiti: ora condannano i lavoratori a una chiusura inesorabile».
Il governo, dopo aver assistito ai rappresentanti sindacali che si sono alzati dal tavolo e aver letto le dichiarazioni rilasciate ai giornalisti, ha diramato una nota in cui ha espresso «rammarico per il fatto che la proposta di proseguire il confronto sull’ex Ilva, anche relativamente agli aspetti tecnici emersi nel corso della discussione, non sia stata accettata dalle organizzazioni sindacali». E sono altre parole indigeste, per sindacati e lavoratori. «Abbiamo deciso consapevolmente e con grande responsabilità di interrompere il confronto e di ascoltare i lavoratori», ha spiegato Palombella a chi attendeva fuori da Palazzo Chigi l’esito dell’incontro, «ci hanno presentato delle proposte inaccettabili perché partono da un presupposto: utilizzare i lavoratori per fare cassa». Una denuncia ribadita da Ferdinando Uliano segretario generale Fim-Cisl: «Siamo andati a questo incontro sperando che ci fossero delle proposte concrete rispetto a un piano di rilancio con degli offerenti, che ad oggi non sappiamo neanche che tipo di prospettiva hanno in mente come piano industriale, e abbiamo avuto la sorpresa da parte del governo di collocare in cassa integrazione fra tre giorni altre 1.200 persone, quando non è cambiato nulla rispetto al mancato accordo di qualche settimana fa. Con la prospettiva di fermare un’attività, quella delle batterie, delle cokerie: è chiaro che questo è un elemento dal nostro punto di vista che non può essere condiviso perché non ci sono neanche nelle condizioni di trovare un nuovo acquirente. Qua siamo a una messa in discussione del piano di ripartenza che avevamo condiviso con il governo per il quale loro si erano impegnati a finanziarlo. Si è deciso di fare cassa con i lavoratori».
Il governo, in una delle slide mostrate al tavolo con i sindacati, parla effettivamente di «piano a ciclo corto», spiegando che l’obiettivo è quello di accelerare i tempi dei lavori agli impianti e di impiegare quattro anni per portare a termine le misure di decarbonizzazione. I dettagli però forniti ai sindacati su come effettivamente raggiungere l’obiettivo latitano. Nel documento illustrato dai ministri si afferma che dal 15 novembre al febbraio 2026 Acciaierie in amministrazione straordinaria «darà corso ad interventi per la manutenzione di altoforno 2, altoforno 4, acciaieria 2, treno nastri 2, rete gas coke e agglomerato, impianti marittimi, interventi ambientali, adeguamento normativa Atex e prescrizioni Ctr» e che da marzo 2026 «sarà comunque necessario fare ulteriori interventi - auspicabilmente a cura del nuovo acquirente - su altoforno 1, ove dissequestrato, centrali elettriche, utilities, cokerie, acciaieria 1, treno nastri 2, treno lamiere e lavorazioni a valle. Obiettivo, garantire la continuità produttiva, tutelare la sicurezza dei lavoratori, mantenere le quote di mercato».
Formule generiche, a cui il governo ne aggiunge altre circa i negoziati in corso per la compravendita con i fondi americani Bedrock e Flacks Group e l’annuncio di «un altro operatore estero», che secondo le prime indiscrezioni potrebbe arrivare dal Qatar. O altre formule altrettanto generiche sulla decarbonizzazione, per la quale, si legge nel documento illustrato dai ministri ai sindacati giunti a Palazzo Chigi: «Realizzazione del piano di decarbonizzazione dell’ex Ilva nel più breve tempo possibile con mantenimento della continuità produttiva così da consentire all’Italia di diventare il primo Paese europeo a produrre solo acciaio green». Come, in concreto? Con quali finanziamenti? Non è dato sapere. Intanto, mentre continuano a mancare garanzie per la salute di chi vive a Taranto, 6.000 dei 7.900 lavoratori vengono messi in cassa integrazione.
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