Fenomenologia di “The Life of a Showgirl” di Taylor Swift, un mese dopo

Novembre 4, 2025 - 03:30
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Fenomenologia di “The Life of a Showgirl” di Taylor Swift, un mese dopo

Stiamo calmi. Per cominciare, la prima canzone dell’album, “The Fate of Ophelia”, è un pezzo che si suonerà, ballerà e canticchierà ancora quando voi ed io saremo polvere (e immagino, d’ora in poi, file chilometriche da Monna Lisa, da “Primavera” di Botticelli, alla Tate Britain, davanti al quadro di Millais che ha ispirato TS e/o i suoi videomaker). Ci torno alla fine. “The Fate of Ophelia” apre un album di dodici canzoni centrate su due temi tradizionalmente swiftiani: l’amore e il successo. 

Quanto all’amore, non siamo naturalmente ai livelli massimi che TS ha toccato in pratica in tutti i suoi album precedenti, e in particolare in 1989 e in “Lover”. La felicità scrive in inchiostro bianco, come dice Montherlant? Cioè: adesso che ha trovato il Vero Amore, la vena delle sue canzoni d’amore ha finito per inaridirsi? Può darsi, ma è anche vero che in passato TS ha scritto, oltre a tante canzoni-lamento sul suo cuore spezzato, anche fior di canzoni d’amore euforiche (per esempio, in “1989, Style”; in “Lover”, quella che dà il titolo all’album, o “Daylight”). 

Comunque sì, “Wish List”, “Honey” e “Eldest Daughter” sono delle oneste, non memorabili canzoni d’amore. Anche “Opalite” è una buona canzone d’amore, un po’ più strutturata delle suddette, ma a differenza delle suddette resterà perché – a parte la seducente metafora del “cielo color opalite” – musicalmente è un perfetto pezzo da coro o da karaoke, di grandissima allegria. Anzi, un perfetto pezzo da trenino di Capodanno, da pensionare Brigitte Bardot: e mi darete ragione tra due mesi.

“Ruin the Friendship” invece sembra un po’ un fondo di magazzino dei tempi di 1989 o ancora prima, ma con un twist funebre (lei, quand’erano adolescenti, non lo ha mai baciato anche se avrebbe voluto, e lui poi è morto) che finisce per dare un piccolo brivido al post-adolescente cinquantenne che medita amaramente sulle occasioni mancate. E nell’oeuvre di TS è una specie di palinodia di Betty, la canzone in cui lui, diciassettenne, chiede a lei, Betty, di perdonarlo per averla tradita (anche qui baci, non sesso): «The worst thing that I ever did / Was what I did to you». E invece no, adesso il consiglio è di rovinare l’amicizia, di baciarsi quando se ne ha voglia, di cogliere l’attimo: «My advice is always ruin the friendship / Better that than regret it for all time / Should’ve kissed you anyway». E Wood, finalmente, parla di sesso, non proprio con garbo: «His love was the key that opened my thighs». Ci sono voluti trentacinque anni. 

Fin qui, a parte “The Fate of Ophelia”, niente che sia davvero all’altezza della più brava songwriter della sua generazione. Ma, come dice il titolo, “The Life of a Showgirl” è soprattutto un disco sulla vita delle persone di successo. Perché sì, va bene, l’amore, l’innamoramento, il cuore spezzato: su questi temi eterni, quelli cui secondo Zappa è da imputare «un certo qual sottosviluppo mentale negli USA» (citato in Alessandro Pizzin, Frank Zappa, Roma, Editori Riuniti 2004, p. 47), TS ha costruito il suo impero miliardario, da “Taylor Swift” (2005) a “The Tortured Poets Department” (2024: TTPD). Ma soprattutto negli ultimi anni la dimensione pubblica e la frizione col mondo hanno assunto nella sua vita un’importanza tale da far sì che un numero sempre più cospicuo di canzoni si sia concentrato sul mondo (e sulla frizione) anziché sui suoi amori. In parte sono state riflessioni sul costo e l’evanescenza della fama (le bellissime “Who’s Afraid of Little Old Me” e “Clara Bow”, in TTPD, o la meno bella “Look What You Made Me Do”, in “Reputation”); in parte sono state una continuazione della polemica con altri mezzi, un modo per fare i conti con i detrattori, i nemici che sparlano in rete o nella realtà (in TTPD, per esempio, “ThanK you aIMee”, contro Kim Kardashian). 

Ora, questa tendenza all’estroversione, a parlare di ciò che sta fuori (discografici maligni, haters, colleghe sboccate) anziché di ciò che sta dentro (le pene e le gioie dell’amore) ispira cinque su dodici delle canzoni di “The Life of a Showgirl”, e ascoltandole tutte insieme si capisce che l’artista più famosa del mondo è anche quella che ha saputo mettere in musica meglio di ogni altro una riflessione su questo supremo feticcio contemporaneo, la fama. Tema non nuovo per TS, dicevo. Ma nei vecchi dischi la riflessione suggeriva soprattutto amarezza («I am what I am ’cause you trained me»: Who’s Afraid…) senso di colpa («It’s me, hi, I’m the problem, it’s me»: Anti-Hero); adesso – e può darsi che sia un effetto della serenità e dall’equilibrio portati dall’amore – la battaglia col mondo è affrontata quasi con euforia: “Father Figure” fa i conti con un manager troppo esoso («this empire belongs to me», dice uno degli ultimi versi); “Actually Romantic” con una velleitaria cantante concorrente; e la canzone che dà il titolo all’album, “The Life of a Showgirl”, dice che sì, alla fine la vita di una showgirl merita di essere vissuta. 

Lo dicono, in fondo, anche le due canzoni più belle del disco (sempre a parte “The Fate of Ophelia”). In “Elizabeth Taylor”, TS fa qualcosa di simile a ciò che aveva fatto in Folklore, e qua e là nella sua discografia precedente: crea o ricrea un personaggio e lo fa parlare, stavolta non un personaggio immaginario ma, appunto, Elizabeth Taylor scelta come una specie di alter ego, esperta anche lei di successi, tradimenti, cadute. Invece “Cancelled!” è una dichiarazione d’indifferenza nei confronti dei «crociati mascherati» che pullulano in rete, e intimidiscono o ‘cancellano’ chi non va loro a genio. Ma è interessante anche l’idea-guida del brano, che le persone che riconosciamo come amiche sono quelle che «hanno le nostre stesse cicatrici». Interessante ma falsa: come amici in genere si scelgono quelli che non hanno le nostre cicatrici, anzi meglio se non ne hanno affatto – ma «the ones with matching scars» suona comunque benissimo.

“Elizabeth Taylor” e “Cancelled!” contengono anche i versi più citabili, e quindi memorabili, dell’intero album, e qui bisogna precisare che ‘versi citabili’ (un genere nel quale TS è maestra) non vuol dire ‘bei versi’, o non per forza. A volte è l’opposto. In un’intervista, TS si è detta molto orgogliosa del verso «I pay the check before it kisses the mahogany grain», che è l’idea di bel verso fiorito che hanno i primi della classe al ginnasio. Mentre versi meno torniti riescono a condensare benissimo, per esempio, l’angoscia che si genera col successo: «Be my NY when Hollywood hates me / you’re only as hot as your last hit, baby» (“Elizabeth Taylor”); o il senso di superiorità che si prova, da megastar, di fronte a un mondo di imbecilli bercianti: «Good thing I like my friends cancelled / I like ’em cloaked in Gucci and in scandal» (“Cancelled!”).

Ma per tornare finalmente al primo pezzo dell’album, e al video che l’accompagna. Avete studiato a scuola il Gesamtkunstwerk di Wagner, ossia quell’arte scenica in cui convergono, spiega Wikipedia, «musica, drammaturgia, coreutica, poesia, arti figurative, al fine di realizzare una perfetta sintesi delle diverse arti»? Bene, ma si tratta di riconoscerla quando ce la si trova davanti, naturalmente aggiornata ai tempi: non più la toga e il coturno ma il tableau vivant, le scenografie vecchia Hollywood, i lustrini. “The Fate of Ophelia” è il perfetto pezzo da ballo di cui dicevo, una di quelle rare canzoni che è impossibile ascoltare stando fermi (sembra una versione accelerata di “Summertime Sadness” di Lana Del Rey? E allora?); ma il piccolo film che accompagna il brano lo trasforma appunto in “opera d’arte totale”, ossia in un prodotto dello show business al suo livello più alto. Come ha detto una volta Letterman conversando proprio con TS: «tutto ciò che si può chiedere a uno spettacolo: glamour, musica deliziosa, una bella donna. È stato grande».

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