Trump rimette in riga Israele, e detta le regole per il futuro della Palestina

Novembre 19, 2025 - 05:00
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Trump rimette in riga Israele, e detta le regole per il futuro della Palestina

La risoluzione votata martedì dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha introdotto tre svolte nello scenario israelo-palestinese. Tutte da ascrivere a inedite scelte di portata storica assunte da Donald Trump. Scelte definite da un vertice che dirige la politica mediorientale americana, che affianca le strutture dell’amministrazione. Un team che è composto da un inglese, Tony Blair – che ha fornito un contributo determinante quanto a valutazione negativa della leadership palestinese, ma al contempo ha imposto una visione progressista sul trattamento della popolazione di Gaza – e da due privati cittadini, i miliardari americani Steve Witkoff e Jared Kushner, che hanno dato prova di doti non solo diplomatiche, ma anche strategiche (Kushner soprattutto, che può essere definito il vero tessitore degli Accordi di Abramo).

La prima novità è che per la prima volta da decenni non solo gli Stati Uniti non oppongono il veto in sede di Consiglio di Sicurezza a una risoluzione che propone uno Stato palestinese, anzi proprio questo è lo sbocco finale dell’intera risoluzione da loro proposta.

Un fine espresso in termini prudentissimi, con un verbo condizionale di enorme rilevanza: «Le condizioni potrebbero esserci per un percorso credibile verso l’autodeterminazione e la sovranità palestinese». Nei fatti, prima di arrivare allo Stato palestinese, si introduce anche la necessità di una riforma della Autorità nazionale palestinese, oltre a essere ribadita la condizione necessaria del disarmo di Hamas.

Naturalmente questo è un duro colpo sotto la cintura sferrato da Donald Trump a un Benjamin Netanyahu che sperava invece di avere trovato in lui il presidente americano più vicino alle sue posizioni, e che ha ribadito il suo no deciso a qualsiasi ipotesi di Stato palestinese. Intanto, il suo alleato Itamar Ben Gvir, per capire a quali livelli sono arrivati lo sconcerto e l’irritazione d’Israele, ha proposto che per reazione alla risoluzione Onu il Mossad uccida Abu Mazen. Mai la politica israeliana era caduta così in basso.

Resta il fatto che con la svolta impressa dalla risoluzione 2803, qualsiasi governo israeliano non potrà più sottrarsi alla volontà non già dell’Onu, ma del presidente americano in prima persona, di esperire tutti i pur prudenti e cauti passi per arrivare a uno Stato di Palestina. Il tutto, va detto, introducendo un elemento nuovo: la necessità di un percorso di “decantazione”, di sospensione della sovranità su Gaza. Un concetto innovativo opposto a quella fretta tutta ideologica che ebbe invece Condoleeza Rice nel 2006 quando volle che si tenessero subito elezioni politiche col risultato di consegnare la vittoria nella Striscia ad Hamas. Di elezioni in Palestina nella risoluzione non si fa cenno, e non se ne parlerà per lungo tempo.

Come arrivare a rendere inoffensivo Hamas resta una questione aperta e più che scabrosa, ma la politica dei piccoli, piccolissimi, passi intrapresa dal team negoziale americano si sta dimostrando positiva. Quello che conta è che, per la prima volta nella storia, è stabilito un mandato Onu alla forza militare multinazionale che deve prendere il controllo del territorio di Gaza.

Questo è uno dei non pochi schiaffi a Israele contenuti nella risoluzione. I tentennamenti di tanti Paesi arabi nell’inviare i propri militari a Gaza hanno trovato la rassicurazione più alta.

La seconda novità di assoluto rilievo è che l’Onu riconosce formalmente agli Stati Uniti un ruolo di interlocuzione e di mediazione, per la definizione di questo «percorso credibile» verso lo Stato di Palestina: «Gli Stati Uniti avvieranno un dialogo tra Israele e i palestinesi per concordare un orizzonte politico per una coesistenza pacifica e prospera». Dunque, un padrinato americano formale, un intervento diretto sulle due parti per zittire gli estremismi. Intervento che include anche l’inedita precondizione di una riforma dell’Autorità nazionale palestinese, tanto indispensabile quanto impopolare in sede Onu.

Il combinato disposto di questi elementi, tra l’altro, formalizza l’emarginazione dell’Europa da qualsiasi intervento sulla crisi. È questa la fine ingloriosa dello sterile Quartetto per il Medio Oriente (Onu, Stati Uniti, Russia, Unione europea) del 2002, e la presa d’atto dell’ennesimo fallimento non solo di Bruxelles. Questo è accaduto perché è stata sconfitta e comunque si è rivelata del tutto irrilevante la strategia di alcuni leader europei come Emmanuel Macron e Keir Starmer – non di Friedrich Merz e di Giorgia Meloni – di procedere a tambur battente al riconoscimento dello Stato di Palestina. Una strategia sterile, alla quale Donald Trump ha contrapposto un accordo quadro con i principali Paesi arabi. Accordo quadro che ha concluso la tregua nella Striscia, liberato gli ostaggi israeliani, e ha avuto il suo sbocco, appunto, nella approvazione della risoluzione 2803 che ha visto non casualmente gli Stati europei fare solo da spettatori.

Ma la novità più consistente è che l’Onu, per la prima volta dal 1967, su richiesta americana, assegna la sovranità temporanea – si vedrà quanto – della Striscia di Gaza a un’autorità internazionale, il Board of Peace, di cui faranno parte anche un rappresentante cinese e uno russo, che sarà presieduto da Donald Trump. Un ennesimo schiaffo a Israele, nella tabella di marcia disegnata dagli americani.

Sullo sfondo immediato di questa risoluzione naturalmente c’è l’adesione dell’Arabia Saudita agli Accordi di Abramo, oggetto del contemporaneo vertice con Mohammed bin Salman alla Casa Bianca, nel corso del quale sono sicuramente stati trattati anche consistenti interessi e investimenti personali del presidente americano.

Sicuramente, il reggente saudita, custode dei Luoghi Santi, non ha intenzione di fare questo passo strategico e di assoluta valenza storica, con Netanyahu come interlocutore. Non glielo permettono gli eccessi indubitabili commessi nella conduzione della guerra di Gaza e soprattutto gli alleati che il premier israeliano si è scelto, tanto per lui indispensabili quanto del tutto impresentabili per il loro razzismo antiarabo.

È probabile quindi che da questo vertice Donald Trump debba trarre ulteriori elementi che portano la sua amministrazione a sperare in un cambio di maggioranza a Gerusalemme.

Il tutto, con un ulteriore tema spinoso. Una delle condizioni cogenti poste da Mohammed bin Salman al presidente americano per rinnovare e rendere più completa l’alleanza, e per proseguire sulla strada degli Accordi di Abramo, è l’acquisto saudita dei caccia americani F35.

Anche questo è un ennesimo colpo basso contro Israele. Fa crollare infatti uno dei caposaldi della dottrina militare dello Stato ebraico, sinora condiviso da Washington e adesso smentito: la netta superiorità aerea della aviazione israeliana in tutto il Medio Oriente. Inoltre, come specifica un inedito documento allarmato delle Forze Armate israeliane, questa nuova fornitura ai sauditi può mettere in discussione i tempi e i modi della fornitura a Israele degli stessi F35 e dei costosi e indispensabili pezzi di ricambi da parte della Lockheed.

Ma, anche su questo fronte, Netanyahu è costretto a incassare il colpo nello stomaco sferrato da Donald Trump. Con spregiudicatezza machiavellica, infatti, Mohammed bin Salman, che non è uno sprovveduto, ricevendo in pompa magna a Riyad il 7 dicembre 2022 Xi Jinping, e firmando un accordo di interscambio per trenta miliardi di dollari, ha fatto comprendere agli Stati Uniti che è pronto a entrare nell’area di influenza della Cina, se gli Stati Uniti non accederanno alle sue richieste. Una minaccia credibile che spinge Trump a cedere alle richieste saudite, ben sapendo che Israele non ha al riguardo grandi spazi negoziali.

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